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N.O.F. 4 nella cattedrale della follia

N.O.F. ovvero Nannetti Oreste Fernando con la fibbia del suo panciotto ha inciso l'intonaco del reparto psichiatrico Ferri, producendo un ‘libro-graffito’ lungo quasi 200 metri

Muro del reparto "Ferri" dell'ex Manicomio psichiatrico di Volterra (PS)

Mura fatiscenti e cortili abbandonati, panchine consunte, calcinacci, vetri da finestra rotti, pareti stonacate, portoni semiaperti e l’inquietante sensazione che i degenti ancora vi vagassero: così si presentò ai miei occhi di ventenne il manicomio di Volterra quando lo visitai per la prima volta. Un condominio particolare, in stato di abbandono fin dagli anni ’80, i cui inquilini vi abitarono non per libera scelta (a loro non era consentito scegliere), ma sottostando a precise disposizioni date da chi, a quegli “stabili”, davano motivo di esistere. Costruzioni realizzate con criteri architettonici che ubbidivano ai principi di custodia coatta: mura di cinta provviste di reti metalliche altissime; enormi cancelli a sbarrare l'ingresso; finestre con inferriate; gli spazi interni disposti in modo da rafforzare il senso di separazione ed isolamento. Il tutto immerso, paradossalmente, in ettari di bellissimo verde.


Sono tornato nel manicomio più volte e proprio in questa prigione ho conosciuto la storia di N.O.F., ovvero Nannetti Oreste Fernando, che qui trascorse circa 35 anni. In questa cattedrale della follia, come l’ha definita Vittorino Andreoli, N.O.F. sembra uscire dalla penna di Victor Hugo, abitandovi come Quasimodo in Notre-Dame. Solo che in questo caso il senso di abbandono, di isolamento e del diverso non è frutto di fantasia, ma di pura e drammatica realtà. Nel corso della sua degenza forzata, in un ambiente che annulla l'individualità e reprime il proprio io, Nannetti è riuscito a comunicare il suo essere nel mondo tramite una inconsapevole espressione artistica. Per più di venti anni, ogni giorno, approfittando dell'ora d'aria concessa, con la fibbia del suo panciotto N.O.F. incise l'intonaco del reparto "Ferri", producendo un ‘libro-graffito’ lungo quasi 200 metri per un'altezza media di oltre un metro.


Manicomio psichiatrico di Volterra (PS)


Esaurito l'intonaco, proseguì sul passamano in cemento di una scala lunga un metro per un palmo di larghezza; infine, munito di carta e penna, produsse qualcosa come 1600 lavori. Agli inizi degli anni '80, grazie a Mino Trafeli (e al foto racconto di Pier Nello Manoni), scultore e insegnante volterrano, cominciò la ‘riabilitazione’ sociale di Nannetti come artista, lui che probabilmente neanche sapeva di esserlo; lui che su quell'intonaco, semplicemente, proiettava il suo mondo fantastico fatto di immaginari deliri, unica, poetica salvezza dalla assoluta e isolante spersonalizzazione del manicomio. Se per Quasimodo il rifugio era rappresentato dai suggestivi antri di Notre-Dame e dall'amore per Esmeralda, N.O.F. trovò in una particolare tela l'isola dove riparare da un naufragio mentale totale. Un graffito che, per forza espressiva, sembra gridare la voglia e il diritto di vivere del suo autore, seppure senza sofferenza alcuna. Il meticoloso e paziente lavoro d'incisione si traduce in un enigmatico linguaggio cifrato accompagnato da ingenue figure.


Un linguaggio leggibile, ma dal significato incomprensibile: «Io Signor N.O.F. (4) Ho dichiarato tutto ciò che vi è scritto Nucleare Orientale Francese = Nannetti Oreste Fernando Grado Colonnello Astrale Titolo Imperatore di Francia comprese le sue Colonie… Io sono un Astronautico Ingegnere Minerario nel sistema mentale, questo… e la mia chiave Mineraria, sono anche un colonnello dell'Astronautica Mineraria Astrale e Terrestre… questa è la mia spiegazione Nucleare del Signor Nanof, N.O.F. (4) detto lo Scassinatore Nucleare.» Nannetti si sente al centro di un sistema telepatico di cui si fa interprete: un ponte che lo collega con lo spazio ed i suoi pianeti fino al centro della Terra e i suoi minerali. Inutile cercare ipotetiche interpretazioni.



Scriveva Michelucci: «Quando vado in una clinica psichiatrica e vedo il vecchio ambiente con le inferriate, le finestre sbarrate e dentro questi pazzi che non fanno nulla, mi chiedo come posso intervenire io come architetto per la loro sorte, come posso togliere un'inferriata… Ma risolvo veramente il problema della libertà di questi uomini? No, non ho questa facoltà. Intuisco però che una possibilità c'è (…) avvicinandomi al pazzo, avvicinandomi ad un carcerato, ad uno che è a letto malato, semplicemente trovando in me un argomento che possa interessare e l'ammalato e il pazzo e il carcerato, ho pensato che realmente si supera un muro, che questo fa veramente buttar giù i muri costruiti…». Nannetti aveva imboccato la strada giusta, trovandosi però da solo ‘l'argomento’.


Di quel libro-graffito oggi non sono rimaste ormai che poche pagine. Grazie alla sinergia tra l’Associazione “Inclusione Graffio e parola”, il Comune di Volterra, l’ASL 5 proprietaria della struttura, la Sovrintendenza ai Beni Architettonici di Pisa e la Regione Toscana, prima che la tela di N.O.F. sparisse del tutto, circa otto metri dell’opera sono stati recuperati ed esposti nella biblioteca Lombroso di Volterra. Nel 2001 ho ripercorso e riletto le vicende dei manicomi d’Italia, dei tanti Nannetti vegetati negli ospedali psichiatrici, tra reclusione e impotenza, attraverso un intervento di Marina Abramovic nel Padiglione Charcot di Volterra. Diviso in piccoli gruppi, il pubblico entrava nell’edificio indossando apposite scarpe: sotto i tacchi erano applicate delle calamite e nel seguire il percorso, una lastra metallica che percorreva i corridoi dell’ospedale, avvertii tutta l’angoscia del netto contrasto fra l'impulso mentale all'azione e i limiti fisici imposti dai magneti attratti dal pavimento.


Negli anni, artisti e scrittori hanno colto non solo la potenzialità artistica di N.O.F. inserito nel filone dell'Art Brut, ma anche un importante aspetto: il padiglione, il cortile, il graffito diventano chiave di lettura per interpretare e vivere un senso di isolamento che non è stato solo quello di Nannetti e dei suoi compagni, ma è quello forse di molti individui della città contemporanea, che – come notava anche Michelucci - offre spazi per la follia collettiva, ma nessuno per il delirio individuale.



© Edizioni Archos

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