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Un sogno a Gaza


Un reportage girato tra dicembre 2014 e gennaio 2015 nella Striscia di Gaza

Un lembo di terra antichissimo e bellissimo che si affaccia sul mare e che oggi detiene il drammatico primato di essere la più grande prigione a cielo aperto del mondo. Lunga circa 40 km e larga 10 km, la Striscia di Gaza è assediata su tre lati dalle forze militari israeliane, a sud da quelle egiziane. Una prigione vera e propria corredata di carceriere, l'esercito israeliano, in possesso della chiave che può aprire o chiudere la porta che separa quasi 2 milioni di persone dal resto del mondo. Una condizione umana irreale e pur vera.

Infinite altre le sofferenze inflitte alla popolazione civile dalla presa di potere da parte di Hamas nel 2007: dall’embargo imposto da Israele e recentemente anche dall’Egitto, alle tre aggressioni militari israeliane subite in meno di sei anni. Drammatico appare il bilancio della situazione attuale e futura della Striscia: secondo un rapporto della Banca Mondiale (maggio 2015) detiene un altro triste primato, quello del più alto tasso di disoccupazione al mondo. Gaza è stata inoltre dichiarata inabitabile entro 5 anni da uno studio della Conferenza dell’ONU sul Commercio e Sviluppo (2015).

Normalmente esclusa dall’attenzione dei media internazionali, a Gaza non viene sancito il rispetto del diritto internazionale umanitario. La violazione di uno dei fondamentali diritti della persona, quello della libertà e del movimento, fa si che illecitamente da anni vi si perpetui una punizione collettiva. Una collettività con una tra le più alte densità di popolazione al mondo è costretta a vivere prigioniera in un territorio caratterizzato da alta instabilità politica, imponderabile sempre la durevolezza delle tregue stilate con Israele, segnata dai traumi causati dai frequenti conflitti militari e soprattutto costretta a sopravvivere a se stessa facendo affidamento solo sugli aiuti umanitari senza intravedere segni di sviluppo e cambiamento.

Ad oggi, l’unico cambiamento che potrebbe definirsi tale, è l’allungarsi sull’enclave palestinese dell’ombra nera dello Stato Islamico che sembra volerne minacciare la sicurezza e stabilità che Hamas è chiamata a garantire per provocare un nuovo conflitto con Israele. Striscia di Gaza, dicembre 2014 - gennaio 2015, circa 4 mesi dopo la fine dell’ultima e più violenta offensiva militare israeliana. Oltre 2.000 persone hanno perso la vita tra cui oltre 1.400 i civili, migliaia di abitazioni completamente distrutte.

Gaza è ancora un territorio profondamente segnato dalla distruzione. La ricostruzione non accenna ad iniziare. Interi quartieri rasi al suolo di cui restano solo macabri scheletri, macerie non rimosse ancora intatte. Mancano acqua e elettricità. Tutto sembra parlare dell’impossibilità di separarsi dagli orrori recenti per progettarsi verso il futuro. Risuonano spari che provengono dal mare, droni ronzano sul cielo, qua e là sventolano bandiere Isis. Nell’aria si respira strisciante la minaccia di un pericolo che potrebbe diventare incombente, di una tempesta che potrebbe esplodere fulminea...

All’alba le urla delle squadre di Hamas che sfilano in allenamento nelle strade della città si intrecciano al richiamo alla preghiera del Muezzin dalla vicina moschea, legame “strano” quanto indissolubile tra guerra e religione. Non era certa di cosa significasse confrontarsi con un paesaggio di siffatta devastazione e sofferenza, agli antipodi dal mondo di fantasia dove ama immergersi l’artista. Forse l’espressione artistica poteva trovare un senso anche là, poteva trovare un senso che non fosse consolatorio anche in quell’universo di dolore e follia.

Una determinazione oscura mi conduce a Gaza, l’esigenza certo, ma anche l’orgoglio e la responsabilità morale di mettere i miei strumenti di artista al servizio di una delle cause più travagliate e irrisolte della storia recente, quella palestinese, che vede da oltre 60 anni la violazione dei diritti umani di un popolo a cui viene negato il diritto fondamentale di esistere.

Ma recarsi a Gaza significava ancora altro, significava spingersi oltre un valico insuperabile per confrontarsi con un’umanità la cui esistenza era sospesa tra la vita e la morte, un’umanità costretta all’isolamento forzato attraverso una coercizione fisica bestiale. Una sorta di discesa in un cerchio infernale dove invece delle ombre dei dannati ho incontrato uomini e donne ancora capaci di sognare.

Jabalia, il più grande campo profughi della Palestina, un ragazzo che come tanti coltiva con determinazione una passione, il Parkour, uno sport diventato negli anni uno dei simboli più emblematici e potenti della resistenza non violenta a Gaza: una danza acrobatica mozzafiato che si snoda bellissima tra scenografie di relitti che è esorcizzazione del senso di morte di un paesaggio apocalittico, una corsa vitale inarrestabile che è rappresentazione dell’anelito alla libertà violentemente negata.

Un incontro casuale, ma quel volto intenso e bello, velato d’angoscia e ancora segnato dal terrore rimane indelebile nel cuore. Da solo avrebbe potuto esprimere e dare un senso a quell’universo irreale che mi sentivo precipitare addosso e che se non rappresentato, rischiava di frantumarsi e rimanere per sempre incompreso. Fahed parla davanti alla videocamera, pronuncia parole intermezzate da lacrime e commozione di cui non conosco il significato e che conoscerò solo più tardi al ritorno in Italia. Scoprirò la forza dei suoi pensieri, la sua determinazione a non rassegnarsi ad un destino di morte.

Sogna di oltrepassare i confini di Gaza attraverso il parkour, lo sport della libertà, come lui stesso lo definisce e riscattare così il suo destino e quello della famiglia. Le sue parole emergono dal chiaroscuro del suo mondo interiore, a tratti si spezzano, riemergono e si ripetono con un movimento incessante, come quello perenne delle onde del mare.

Sono il suo grido di dolore ma anche di speranza rivolto al mondo che sta là fuori e che deve sapere del suo amore per la gioia la felicità la vita la gente la libertà. “Un sogno a Gaza” è la rappresentazione della speranza per una vita assolutamente nuova “io voglio riiniziare la vita” ripete Fahed. La sua immagine trascende i limiti della sua storia individuale per diventare immagine universale.

Essa va a rappresentare tutti coloro i quali alla violazione dei diritti fondamentali della propria persona riescono ad opporre resistenza, vitalità e fantasia. Nonostante i ricordi ancora vivi dei traumi subiti, il rombo dei raid aerei notturni era una cosa spaventosa, e la consapevolezza della drammaticità della sua condizione, a Gaza la vita è come la morte, vivi ma pensi continuamente alla morte. Fahed non rinuncia a lottare per una vita diversa.

Una vita diversa come quella che sanno sognare le ragazze con pennellate color oro sui muri della città, a testimonianza di come nessuna prigionia può arrestare nell’essere umano il fluire delle idee e la capacità d’immaginare.

Articolo pubblicato su ArtApp 16 | LA PRIGIONE


© Edizioni Archos

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