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Architettura pubblica, il caso Medellín

È possibile migliorare la qualità della vita urbana di una grande metropoli attraverso l’architettura?

Favelas di Medellin, Colombia

“L’urbanistica è lo specchio di una civiltà” (Le Corbusier 1946)


Sergio Fajardo, sindaco di Medellin dal 2003 al 2007, mediante l’architettura di opere pubbliche è riuscito a mettere in campo politiche urbane che hanno in pochi anni riportato alla normalità la città della paura al punto da fare dedicare al New York Times un lungo articolo elogiativo sulla città, fino allora famosa solo per i narcotraffici, come meta turistica. Fajardo in poco più di 4 anni ha dimostrato come sia possibile migliorare la qualità della vita urbana di una grande metropoli attraverso l’architettura, uno strumento tanto antico quanto rivoluzionario, attivando una coscienza progettuale sensibile che per essere attuata deve passare dalla pratica solidale della cura dei luoghi in quanto occasione di comportamento.


L’architettura, la vera architettura è quella che è in grado di far accadere, di compiere delle trasformazioni tra la gente nella vita quotidiana e tra i popoli. La storia e la cultura delle grandi civiltà ci arriva tramite la loro architettura che non solo è in grado di affrontare le grandi questioni dell’umanità ma ne è sempre protagonista. Nelle favelas di Medellin, il luogo forse più pericoloso al mondo, gli omicidi toccavano la cifra annuale di 380 ogni centomila abitanti. Dopo 4 anni di opere pubbliche per edifici e infrastrutture che hanno cambiato radicalmente il significato della città gli omicidi sono scesi a 29 ogni centomila abitanti.


Scorcio di una favela


In una intervista rilasciata alla rivista Abitare, Fajardo spiegando che l’asse principale del progetto politico è consistito nel realizzare interventi sociali, culturali, educativi nelle zone più sfavorite dice: «..era già chiaro che l’architettura avrebbe giocato un ruolo fondamentale, perché era nostra intenzione dare visibilità all’inclusione sociale che vogliamo raggiungere e quindi far realizzare i migliori progetti nei luoghi più umili. Vogliamo che l’architettura cambi la percezione e la natura dei luoghi che sono stati tra i più carichi di dolore della città, che contribuisca a generare nuovi punti d’incontro e di scambio... Non abbiamo scelto i luoghi in base al calcolo elettorale o politico, che non necessariamente coincide con le vere necessità... l’investimento nei settori più poveri e violenti non solo ne avrebbe migliorato le condizioni puntuali di vita, ma sarebbe stato anche un investimento sociale che avrebbe generato benessere per tutta la città, cambiandone l’immagine a livello nazionale e internazionale».


Cambiare l’immagine di una città attraverso la realizzazione di progetti pubblici di qualità proprio là dove la lacerazione e l’isolamento sono maggiori crea negli abitanti un senso di appartenenza, nasce una nuova dignità, un’autostima a volte mai provata. Ma quale architettura ha questo compito e con quale architettura si può raggiungere un qualche cambiamento sociale. Certamente un’architettura che parli della propria funzione con una forte connotazione contemporanea.



In realtà, come sostiene Alvaro Siza, la vera architettura pubblica è quella che riesce, dopo aver soddisfatto pienamente e rigorosamente la funzione richiesta, a trascenderla per dichiararsi disponibile ad usi diversi. Progettare una città è per un architetto prima di tutto un atto di solidarietà e tolleranza, solo così può stimolare la convivenza. L’architetto deve continuamente assumere più identità per capire il bambino, l’anziano, il lavoratore e il disoccupato, l’emarginato e lo sportivo e può farlo solo mediante la partecipazione attraverso un animo libero e un atteggiamento sempre curioso. L’architetto deve prima di tutto saper ascoltare, e poi deve saper comunicare affinché l’idea sia di dominio pubblico che è fondamento stesso della solidarietà. Postulato fondamentale dell’opera urbanistica di Le Corbusier è stato il rispetto della libertà individuale o meglio la restituzione della libertà perduta. Secondo Le Corbusier soltanto l’architettura e l’urbanistica possono colmare questa aspirazione profondamente umana.


“L’urbanistica è l’espressione, rappresentata nelle opere dell’ambiente costruito, della vita di una società. Di conseguenza, l’urbanistica è lo specchio di una civiltà. Non si tratta di una scienza limitata, troppo strettamente specializzata e specificatamente tecnica, ma di una manifestazione di saggezza che si propone come oggetto ed effetto di discernere i fini utili ed enunciare i programmi corrispondenti” (tratto da "L’urbanistica di Le Corbusier" di Amedeo Petrilli).




© Edizioni Archos

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