Haiti. Il convivio in cantiere
Una scuola di edilizia che insegni un nuovo modo di abitare e dia ad Haiti la possibilità di risollevarsi dal terremoto e dai saccheggi della storia

Photo © Michele Milesi
Arrivo al campo di Port au Prince all’ora di cena, dopo 15 ore di volo; i volontari che ho incontrato sei mesi prima nel mio studio hanno quasi finito di mangiare e l’aria sotto la tettoia di lamiera illuminata dal neon è calda, umida, densa e tesa.Sono lì da quasi due mesi e quello che stanno facendo è troppo diverso da quello che hanno fatto fino adesso: il loro lavoro non rende come vorrebbero. Sono gente di montagna, carpentieri rudi, grandi lavoratori ormai in pensione che per diversi mesi all’anno vanno nelle missioni più difficili a costruire chiese, case, quello che serve ai più poveri del mondo per non morire.
Arrivano nelle favelas peruviane, nella giungla del Mali con quello che hanno. Costruiscono mentre le loro donne cucinano e lavano i loro vestiti. Gente generosa, cattolici praticanti a modo loro. Vogliono mostrare con orgoglio che sono grandi lavoratori, che solo il lavoro può nobilitarli senza sconti, senza esibire, senza smancerie. Pagano il viaggio e anche il loro cibo e lavorano finché non ce la fanno più, poi tornano a casa dicendo che quella è l’ultima volta, è troppo difficile lavorare per persone così diverse, per chi non capisce la loro lingua, e l’anno dopo sono di nuovo là. Ma il nostro progetto per Haiti è diverso. Spiego che questa volta non dovremo dimostrare la nostra generosità.
Quello che ho promesso è inclusione, dialogo, sedersi alla stessa tavola e scoprire che i loro ideali e quelli di quei miserabili sono gli stessi. Dovranno insegnare il loro mestiere, come lo fanno e perché lo fanno. Dovranno insegnare agli haitiani a costruirsi la loro casa come hanno fatto tutti loro da giovani, appena sposati, con le loro donne. Lo faranno con una tecnologia un po’ diversa, che credono di non conoscere e che per qualche mese studieremo assieme. Dobbiamo costruire, con i locali, una scuola per insegnare un mestiere a chi lo vuole, un luogo dove discutere cosa significa abitare questa terra, dove spiegare che costruire case, costruire luoghi non è solo un fatto fisico, ma anche una proiezione mentale.

Il valore reale sta negli effetti che sarà in grado di produrre, nelle potenzialità performative del luogo che dovrà incoraggiare le persone a comportarsi mentalmente e fisicamente in modo diverso. Un’occasione per ricostruire relazioni, ricreare il senso di comunità e con questo riavviare attività produttive. Useremo la tecnologia a secco assemblando assi di legno con nodi metallici, una evidente e palpabile evoluzione ingegnerizzata delle loro tecniche tradizionali, motivando maestranze e fruitori sul riciclo e il riuso di materiale di scarto. Costruiremo blocchi in cemento alleggeriti con la plastica lasciata per la strada.
Il sapere non si trasmette attraverso formule, ma comportamenti comprensibili e condivisibili che si rifanno a memorie consce e inconsce che sono già dentro di noi. La costruzione sarà un momento di sperimentazione. La sua forma e la sua tecnologia devono essere di stimolo alla fabbrica intelligente, all’esigenza di edificare sempre con un progetto anche nelle costruzioni spontanee.
Una scuola è prima di tutto un edificio pubblico che deve rapportarsi con la comunità, deve comunicare con tutto quello che le sta attorno. Facilitare i contatti significa portare la scuola fuori dalla scuola, oltre i suoi confini. Il progetto e la sua tecnica costruttiva hanno componenti fortemente simbolici. La costruzione a secco implica un modo di costruire trasparente, evidente, dove la resistenza al vento, alla pioggia, al sisma, le schermature al sole e la manutenzione passano attraverso considerazioni visibili ed esplicite già presenti in natura. La copertura della nostra scuola avrà una forma e una dimensione funzionale al clima e all’idea di spazio comunitario.

Tutto questo voglio condividere da subito con i volontari, certo che il progetto e poi il cantiere possono essere momenti conviviali inclusivi di scambio di formazioni e di informazioni, occasioni di comportamenti virtuosi e di serena convivenza tra gente che credeva di non conoscersi, ma in realtà ha solo avuto occasioni diverse.
Haiti è uno stato a cui hanno strappato l’anima.
Il primo gennaio del 1804, sbarazzatasi in modo sanguinoso dei coloni francesi, Haiti si dichiarò al mondo stato indipendente. Un popolo di ex schiavi a cui il primo mondo non ha mai perdonato quella rivolta. La popolazione locale sparì distrutta dagli stenti per lo sfruttamento perpetrato dai coloni francesi perché la loro terra, ricca e fertile come il loro mare, non li aveva abituati alla fatica. Sono stato a Port au Prince nell’agosto del 2012 per verificare la fattibilità del progetto che avevo in mente. Ho trovato una nazione senza stato, occupata dall’ONU, ostentatamente complice della perversa strategia economica delle multinazionali che costringono i paesi all’interno di una cinica logica di potere nella quale non c’è spazio per chi la potrebbe minacciare anche solo idealmente. Ho trovato un popolo a cui è negata una propria economia, schiavo della subdola pratica degli aiuti umanitari che trovano nell’emergenza cronica la loro fortuna. Due mercati diffusi e impenetrabili l’uno all’altro, due fasce sociali che convivono fingendo di ignorarsi: quella dei pezzenti senza fogne, senza acqua potabile, senza corrente elettrica, senza casa, clandestini in casa loro; e quella del potere economico che viene da fuori, che ha tutto e impone un costo della vita più alto che in Europa: diplomatici, religiosi, mafiosi, militari e politici corrotti.
Haiti è da prima del terremoto un grande business per le O.N.G. che devono mostrare al mondo quanto il primo spende per “risarcire” il terzo e il quarto dal proprio spreco. Dimostrare la generosità di Europa e USA che fingono così di rimborsare il saccheggio perpetrato per più di tre secoli e mai terminato. I soldi raccolti servono soprattutto per finanziare organizzazioni, troppo spesso, multinazionali dello spreco e della vergogna. Mentre stavo a Port au Prince da un giorno all’altro i corsi d’acqua infetti e le fogne a cielo aperto della città sono stati intasati da vassoietti di polistirolo arrivati assieme a improbabili razioni alimentari per gli scolari di quelle scuole ricostruite dopo il sisma dalle più svariate fedi americane. Come se fosse possibile risollevare un popolo avvilito ed emarginato distribuendo merendine ai suoi figli.
Non è facile in questo contesto, dove le responsabilità dell’uomo bianco sono lampanti, sedere a tavola con la tua vittima e cercare con lei una strada riparatrice. Potrebbe non crederti, non capire, non fidarsi e avrebbe ragione. Ho pensato di poterne discutere costruendo con loro uno spazio fisico diverso dagli altri che potessero riconoscere come luogo dove ritrovare orgoglio e identità attraverso il lavoro. Il lavoro manuale per uno schiavo, mi dice padre Giuseppe responsabile per gli Scalabriniani di una grande missione dove più di 150 haitiani lavorano tra agricoltura e edilizia, è associato alla sottomissione, all’abbrutimento, è ancora sentito visceralmente come una catena che gli impedisce di vivere la vita che gli spetta. Non credono di poter crescere attraverso il lavoro, è più evidente arrivarci col sacerdozio e lo studio, ma di nuovo questi prescelti si allontanano dalla loro gente aumentando il solco tra loro e quelli che restano miserabili. Padre Santino, direttore generale dei padri Monfortani, crede nel progetto che gli propongo perché pensa che possa ricucire e rimettere sulla stessa lunghezza d’onda il prescelto col suo popolo e creare quella struttura sociale che fino a ora agli haitiani non è stato permesso avere.
La distanza tra chi può mangiare quando vuole e chi non ha l’acqua da bere è tale da creare due mondi che non si incontrano mai.
Gli abitanti di Port au Prince sono prigionieri delle macerie di quelle costruzioni che i popoli buoni e generosi della terra gli hanno costruito tenendoli in ostaggio di una tecnologia approssimativa, spesso incomprensibile, radicando in loro convinzioni totalmente sbagliate dal punto di vista ecologico ed etico. Come prima, per avere case e cibo devono ubbidire, senza capire, all’uomo bianco. Gli edifici rimasti in piedi dopo il sisma del 2009 sono quelli costruiti prima degli anni ’60, in legno e mattone, che anche se cadono non uccidono e il materiale si smaltisce o si recupera facilmente. Il vero problema sono ora le macerie, tonnellate di detriti di fragili muri in blocchi crollati sotto il peso di solai pieni in calcestruzzo spesso slittati, ancora interi, in mezzo alle strade. Per spostare e smaltire ci vogliono mezzi che pochi possono pagare, monopolio dei militari e dei ricchi, eppure ad Haiti anche con i soldi delle Onlus si continua a costruire come prima: solai pieni in cemento armato su esili pilastrini con armature ridicole, muri in blocchi che a volte cadono addosso alla gente prima di essere finiti.
Da qui la proposta di una scuola professionale da costruire con loro in legno, un materiale che potranno produrre facilmente da sé, dove alla spiegazione teorica segue immediatamente la pratica. Un luogo dove formare giovani operai edili e contemporaneamente informare le loro famiglie e il villaggio sui differenti modi dell’abitare, perché l’emergenza non può essere l’alibi per trascurare problematiche quali il consumo di suolo, l’inquinamento antropico, la gestione della sicurezza ai diversi livelli e non ultima l’insoddisfazione dei destinatari che non ne percepiscono completamente i benefici. E allora perché quell’aria tesa? Non c’è dubbio ce l’hanno con me, con quello che gli ho scombinato. Il lavoro gomito a gomito con gente così diversa non rende. Non è come le altre volte e devono capire cosa sta succedendo.
La fabbrica edile è in grado di generare forme di appropriazione e di inclusione tra i diversi attori, ma occorre scardinarne le gerarchie senza perderne il rispetto. Ma forse dovevo venire qui prima. Li ho lasciati due mesi con un giovane architetto inesperto delle dinamiche del cantiere. Dinamiche di condivisione e di comando che si intrecciano, dove il rispetto lo guadagni solo sul campo mostrando competenza e umiltà. Il mio posto è preparato vicino a Francesco, Michele e Giulia: la direzione lavori. Prendo piatto e bicchiere e mi metto in mezzo ai più anziani del gruppo. Non reagiscono, ma so che apprezzano e si preparano a una discussione che non sanno dove li porterà.
Il mio posto è rimasto lì tutta la settimana e tanto c’è voluto perché la scuola tecnica di Haiti entrasse definitivamente nei loro cuori assieme alla consapevolezza che non è l’oggetto del donare quello che conta, ma pensarlo, progettarlo e costruirlo assieme e per lo più occorre farlo davanti a un bicchiere di vino e un piatto di pasta.
Articolo pubblicato su ArtApp 12 | IL CONVIVIO

Chi è | Edoardo Milesi
Architetto, Fonda nel 1979 lo studio Archos orientandosi da subito, attraverso la partecipazione a concorsi di progettazione, verso un costruire fortemente connotato da dettami ecologicamente regolati nell’ambito di una lettura “forte” della realtà.nel 2008 fonda con un gruppo di artisti e architetti la rivista “ARTAPP” della quale è Direttore. Dal giugno 2009 è presidente del Comitato culturale della Fondazione Bertarelli. Nel 2012 fonda l’Associazione culturale Scuola Permanente dell’Abitare.
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