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Il Gesto-Segno Pop di Gianni Asdrubali

L'autore si rivolge direttamente all'artista, in una narrazione intima, per descrivere la sua arte


"Tromboloidi" di Gianni Asdrubali, 1992 | Museo Carlo Bilotti, Roma


… a Siena, da studente, non c’era più un cinema, sicché, anziché al cinema, andavo a vedere la Maestà di Duccio. Ogni sabato. Rimanevo incantato a quei sussulti di “modernità”: uno scorcio di prospettiva perfettamente proposta e butta via, i sandali neri sciolti che a me facevano venire in mente quelli che Montale chiamava gli “scarafaggi di Capogrossi”. Vedendo questo tuo segno, che è tutto tuo, la mia mente corre i secoli, va a Siena, alla maestà di Duccio, quel pittore così schiacciato tra i due colossi, Cimabue e Giotto, corre al nodo sul pancino roseo e gonfio e appena velato del bambino della Madonna di Crevole, un nodo che nella realtà non reggerebbe, ma che mai fantasia di arabo (scrive pressappoco Brandi) avrebbe potuto immaginare.


Ho detto che il tuo segno è oramai riconoscibile. Credo che pochi pittori abbiano avuto la capacità di ottenere questo risultato. È ovvio che questo tuo segno non possa essere un simbolo: infatti non rimanda a niente, non ha un referente. Coincide con un gesto. È un segno-gesto. Tuttavia, la sua ripetizione, non può che far pensare a qualcosa che va oltre il gesto, sia pure quello furioso e vitalistico di certo Espressionismo astratto. È come il tentativo disperato della creazione di una nuova scrittura, una nuova lingua. Anche certi tuoi titoli, che terminano con -oide (i linguisti li chiamano suffissoidi) stanno a suggerire la volontà di creare un essere, un oggetto, una sostanza ex-novo, momenti di una realtà nuova e simile, una simil-realtà, una realtà utopica.


Ma la ripetizione ossessiva di un solo segno non fa lingua. Come una rondine non fa primavera. Cento rondini, sì, invece. Ci dicono che è primavera. Il tuo segno è così. È un emblema, forse un’allegoria. Certo non è un simbolo. Il simbolo, per definizione, richiede un doppio livello, uno dei quali è la realtà, i realia, i referenti, come è ovvio. Anche se è ovvio, credo che sia storicamente interessante, che tu, che nasci pittoricamente negli Anni Ottanta, prendi una strada coraggiosamente diversa da quella imboccata da tanti artisti italiani di quegli anni. Penso sia un gesto significativo, che ci dice di un certo tenore anche etico (perdona, so che non vorresti mescolare le due cose), non solo estetico, della tua arte. Il tuo scavalcare all’indietro certa avanguardia di quegli anni: già nei tuoi “Trombolidi” mi pare di vedere un ritorno, magari involontario a certe “origini”, a certo Léger.


Insomma, dicevo, in questa sorta di gesto-segno di sintassi di una lingua che non c’è, è una delle tue cifre. Ancora una parola su questo. Dalla metafora (non era che una metafora) sulla sintassi e la lingua, potremmo passare al mondo della narrazione. Il tuo gesto-segno anche se non può vivere da solo sulla tela, vive e rimanda ad altri suoi cloni imperfetti, senza soluzione di continuità. Gli altri segni-gesti che formano la tela. Altro indizio di un non-simbolico. Guarda come nei dipinti anche figurativi simbolisti, le persone devono essere isolate, non possono toccarsi, altrimenti scatta l’evento, la narrazione. Dalla tempesta di Giorgione al Déjeuner sur l'herbeecc. Se fossero personaggi, questa flottiglia di tuoi emblemi o allegorie,avrebbero tutta l’aria di qualcosa di epico. È una specie di epos del gesto. Ma si tratta di impatto, di una leggerissima ragnatela di spazio che impatta l’aria all’unisono. Non c’è violenza. Ecco una tua differenza dalla tradizione che ti sei scelto. Il tuo gesto è un gesto veloce, che quasi non vorrebbe esserci,ma vorrebbe lasciare solo l’effetto sulla tela. Non è un gesto violento. La violenza produce sulla tela un effetto che richiama un tempo di esecuzione, sia pure brutalmente breve. Il tuo segno-gesto, invece, non vuole lasciare il segno del tempo impiegato nell’essere eseguito.

Una volta, scherzando, ti ho detto che sei pop. Come sempre, quando si parla con artisti (musicisti, pittori, scrittori, poco cambia) avevo il timore che ti potessi offendere, arruolandoti in una squadra. Ma siccome la tua reazione è stata divertita, vorrei riprendere questo aspetto. Non è, ovviamente, tanto la riproduzione in serie di gesti-segni e serie di dipinti che mi faceva pensare alla pop art. Quanti Morandi o Mondrian abbiamo! Era semmai il ricorso a questi colori acidi, irritanti, algidi, inumani, ora sotto la formalina del plexiglass, applicati a un gesto-segno riconoscibile e ripetuto che mi porta a questo scherzo. Volendo proseguire la provocazione, direi che questi elementi fanno di te la versione pop delle pittoricità in sè, visto che la tua lattina Campbells è un gesto-segno unicamente, definitivamente, semplicemente, basicamente pittorico: pochi centimetri che tornano su se stessi e si aprono ad altri incroci, in un inquadramento dello spazio ruotante, diagonale. Anche qui, una somiglianza e una differenza, rispetto al gesto spiraliforme infinito di Pollock.

Non solo, il ritorno del pennello, usato con la pressione di una spatola, sullo stesso segno, con una seconda, minore pennellata, sta là a dimostrare quanto la pittura cerchi la sua strada per cancellare il segno, ovvero cancellare la sua unicità di gesto tracciato una volta per tutte. Che tu lo voglia o no, credo che ci sia una dimensione fortemente utopica e sociale nella tua pittura. Quel tuo segno-gesto diventa emblema della pittura nella allegoria di un mondo pittorico autonomo, riconoscibile, dove è pervadente il conato di una sintassi, di una unione degli elementi, interni al singolo dipinto e, in virtù della loro similarità (i segnoidi, vogliamo scherzare e chiamarli così?), tra un dipinto e l’altro. E tanto più disperato e ripetuto è lo scacco, tanta più alta, accorata, omnicomprensiva, totalizzante è la tua pittura.


© Edizioni Archos

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