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La Città sognante


L'azione psicoanalitica guardata attraverso le antiche architetture dei luoghi e dei sogni, e luoghi di violenza, praticata e idealizzata

Dijabouti Canyon - Photo © Aurelio Candido

Talvolta nel lavoro clinico vengono raccontati sogni dove lo scenario onirico è abitato da antiche rovine. Sono le rovine a permetterci di ricostruire una memoria, quella di uno spazio che fu abitato dai vivi e i morti. Se vi capita di percorrere le strade dell’antica Magna Grecia potete fermarvi nella città di Esculapio. È un topos archeologico che permette un contatto con un’esperienza spaziale che incarna una modalità di cura della malattia.

Per la prima volta è possibile vivere l’emozione profonda di un antico setting di cura che permetteva l’avvio della modificazione del corpo e dell’anima attraverso una configurazione architettonica. Proverò a descrivervi quell’Asclepion che si situa nel tempio di Telesforo a Pergamo. Mettendoci al centro di questo spazio che funziona da meraviglioso contenitore a dimensione architettonica, possiamo spostarci in prospettiva, sia con un movimento orizzontale che in una discesa verticale, nei corridoi sotterranei al pavimento di cui occupiamo il centro.

Nel primo movimento lo sguardo può scorgere un piccolo tempio sulla sinistra e una biblioteca sulla destra. Siamo di fatto in un’agorà che permetteva sia la rappresentazione teatrale che la comunicazione di un bouleterion, spazio occupato anche dai maggiorenti della città.

Si potevano così incontrare sia gli aspetti catartici della recitazione teatrale che il logos di un dibattito filosofico e politico con il pubblico. Ma che cosa accadeva nei sotterranei? Era lì la sacralità di una cura tutta centrata sull’ascolto da parte dei medici che in silenzio ascoltavano quei sogni che i pazienti al loro risveglio raccontavano tra di loro.

Accanto alla città sognante, sognata e costruita da una cultura classica filtrata da un immaginario tutto mediterraneo, possono oggi balzarci all’evidenza luoghi ben diversi, dove la città è tanto muta da apparirci quasi mutacica. Nel nostro immaginario postmoderno vanno accumulandosi a mò di perturbante elementi di organizzazione dello spazio,della mente e della fantasia continuamente schiacciati da una violenza quasi ipertrofica. D’altronde come si fa a costruire un’architettura del paesaggio sotto gli effetti dell’attuale disastro ecologico planetario?

Mescolati alle sabbie del deserto gli archeologi hanno spesso rinvenuto antichi templi sbriciolati dal sole rovente. È così che una città può essere ingoiata da un paesaggio dove il deserto minacciosamente avanza desertificando. Nell’angolo terapeutico di uno studio psicanalitico accade spesso un racconto dove il lamento patologico rivela l’anima dolorosamente desertificata.

Pergamon Museum, Berlino - Photo © Aurelio Candido

Mentre scrivo scorrono immagini sul video della televisione dove, sullo sfondo del deserto, un uomo con turbante nero esibisce l’esecuzione di una vittima che ci appare con un vestito in colore arancione paradossalmente in tono con la sabbia dorata del deserto e il nero dell’elegante turbante del boia. Ogni commento scritto o parlato inserito in questi tipi d’immagini televisive viene divorato dall’esibizione della crudeltà. Fondamentale è questa scelta postmoderna di medializzare un gesto che ricorda, senza esserlo, un rito medioevale. Zizek nel commentare questi crudeli scenari li vede completamente vuoti e lontani da quegli ardori “trascendenti” che hanno attraversato crociate di tutti i tipi di religione.

Un prestigioso orologio svizzero è apparso sotto la tunica del califfo fotografato mentre dichiara di voler ri-costruire gli antichi califfati da mille e una notte svelando un nascosto desiderio contraddittorio per i peccaminosi stili di vita occidentali. Nelle categorie nietzschiane si avvertiva la fosca previsione rivolta all’occidente. Uomini dis-impegnati e incapaci di sognare, tesi verso barriere che forniscono una ferrea sicurezza che possa garantire un’identità altrettanto rigidamente forte. Nell’attrazione verso la guerra con la possibilità di un netto schieramento assistiamo a partenze relativamente clandestine di giovani europei figli di genitori integrati verso terre dove proprio l’esperienza dell’integrazione non è rimossa ma negata.

Naufraga definitivamente la possibilità di un’identità di appartenenza, senza aver mai vissuto il sogno di costruzione della Città ideale.

Articolo pubblicato su ArtApp 14 | LA CITTÀ

 

Chi è | Maria Gabriella Frabotta

Psicanalista a formazione Lacaniana, membro titolare della S.I.Ps.A. (Società Italiana di Psicodramma Analitico). Ha collaborato al Centro Culturale di Virginia Wolf Università delle Donne di Roma, da anni conduce ricerche sui gruppi per coniugare femminismo e psicanalisi con particolare interesse alla formazione dell'identità nel rapporto tra madre e figlia. Ha aperto da poco un gruppo di ricerca sulla crisi della struttura famigliare in particolare italiana che riguarda il matricidio e il femminicidio.

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© Edizioni Archos

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