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La misura dell'infinito


L’infinito è una conquista del pensiero

Lungo la Panamerica - Viaggio in Perù | Foto © Mattia Recondo, 2011

Gli uomini incontrano molto presto, nella loro vita, l’idea dell’infinito: probabilmente ancora bambini, nel momento in cui si accorgono che si può andare avanti a contare, finché si vuole. Quando l’idea dell’infinito sfiora per la prima volta il bambino, poi non l’abbandona più, per tutta la sua esistenza, almeno come suggestione, come tensione, venendone a volte attratto, a volte respinto, facendone, talvolta, oggetto di desiderio, altre volte di studio e sistematica ricerca. La nozione d’infinito ha il doppio carattere d’imporsi e di essere incomprensibile. L’infinito è una conquista del pensiero; è la testimonianza che l’intelletto, pur partendo dall’esperienza, può superarne limiti e confini.

L’esperienza umana è per sua natura finita e limitata: possiamo toccare solo oggetti che ci sono vicini, a portata di mano; possiamo ascoltare solamente suoni emessi da sorgenti non troppo distanti; impieghiamo un tempo finito per effettuare qualsiasi tipo di percezione o ragionamento; lo spazio visivo è definito dalle leggi della prospettiva, nelle quali punti e rette di fuga ci ricordano che la visione è limitata, confinata all’interno di una linea di orizzonte che non può essere superata, ma che, con le parole di Victor Hugo, “sottolinea l’infinito”. Misuriamo le distanze e il tempo che impieghiamo per raggiungere la prossima meta: con i nostri passi l’attraversamento lento di pedoni erranti; in macchina, le distanze tra le città che abitiamo; in aereo, le miglia tra un continente e un altro, superando mari e oceani mossi da un moto che crediamo infinitamente perpetuo. [...]

La necessità di separare i diritti, di misurare lo spazio e di orientarci in esso ci ha spinti ad interrogarci tra locale e globale: provando a governarne l’interazione, separandone le scale d’azione, sovrapponendone le porte di accesso; a localizzare punti astratti sulle mappe, a fissare confini di proprietà private, domini condivisi dove il concetto di pubblico è sempre più un ossimoro, patrie in cui inculcare e alimentare il senso di appartenenza. I comportamenti adottati per governare il mondo, trasformandolo, abitandolo e misurandolo di nuovo, sono conseguenti alla paura. In uno dei testi fondanti del sapere occidentale, il Codice Giustinianeo, al volume L, si comprende bene come il termine territorio non derivi dalla parola terra ma da “terror”, cioè “terrore” (F. Farinelli , 2011), perché corrisponde all’ambito definito dall’esercizio di un potere politico.

Lungo la Panamerica - Viaggio in Perù | Foto © Mattia Recondo, 2011

La paura di perdere il controllo ha alimentato l’illusione di poter misurare tutto, all’infinito, di “costruire l’infinito”, dopo secoli di tentativi di analisi e rappresentazione, attraverso il credo, nelle arti, nelle scienze, tra terreno e spirituale… nella dimensione inafferrabile del sublime. Ci permettiamo il lusso di parlare di “città infinite” (A. Bonomi, A. Abruzzese, 2004) solo perché abbiamo perso il controllo della forma che si confonde sempre più con il territorio, e non possiamo più ricondurla a regole precostituite.

Che l’infinito possa appartenere o che possa essere rappresentato dalle cose materiali è pura illusione, come è illusorio pensare che una città possa essere definita “eterna”: semplicemente, la subordiniamo a logiche di conservazione, a un’idea di bellezza ampiamente condivisa; confondiamo l’essere eterno con l’essere incompiuto, un palinsesto ancora aperto, come il patrimonio, che è patologicamente incompiuto (F. Purini, 2011). [...]

Non abbiamo fatto altro che costruire labirinti materiali e virtuali, spazi che ci inducono ad azioni convulse che tendono all’infinito nel loro reiterarsi, ma non lo conosceranno mai. Credevamo di poter controllare tutto, nel tempo e nello spazio, ma abbiamo costruito sistemi che ci osservano, che registrano quel che eravamo, ciò che stiamo diventando; ci controllano influenzando i nostri comportamenti. Documenti, video, fotografie, selfie, ormai dominio di molti sui social, registrano il cambiamento del nostro volto, ne aggiornano le rughe, a volte lo sguardo più stanco, e in quei momenti prendiamo coscienza del tempo trascorso, inesorabile. E ci ricordano che non siamo infiniti, ma che viviamo di attimi successivi. Tanti, ma finiti. [...]

Questo mondo non ci è mai bastato; d’altra parte è questa esperienza terrena limitata che suggerisce l’esistenza di qualcosa che sta oltre, di trascendente; che è speranza di salvezza. Scrutiamo nel cielo la possibilità di altre vite, forse con l’illusione di raggiungere mondi migliori. La scoperta di 7 pianeti abitabili, nella costellazione dell’Acquario, diffusa dalla Nasa lo scorso 22 febbraio, ha alimentando la ricerca di vita extraterrestre nell’universo, la speranza di individuare nuovi terreni da colonizzare, il desiderio di incontrare nuove anime, come se ci sentissimo soli. Come se non ci bastassimo più. [...]

L’infinito è così nella dolcezza degli occhi di un bambino che mai ti tradirà, nell’attimo di piacere che sembra essere il vero motivo dell’esistenza, nella speranza che forse un giorno avrai un figlio e “per sempre” lo amerai. Per questo, e per molto altro, non ci resta che regalare uno sguardo al cielo, e disegnare per aria, con le stelle, i nostri sogni.

Estratto dall'articolo pubblicato su ArtApp 18 | L'UTOPIA


© Edizioni Archos

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