Le cosmologie immaginarie di Tumminello nelle terre della Dea Tanit
L'artista racconta la sua esperienza di sei mesi a Gibellina nell’atelier della Fondazione Orestiadi

Photo © Nini Scovazzo
“Il ‘territorio Tumminello’ è il giardino geometrico della visione, depurato da ogni ostacolo e portato nella condizione orizzontale di un’immagine lampante, esposta fino al limite dell'impietosa esibizione. Esso implica un piano ampio per la visione, da cui è possibile spaziare impunemente con lo sguardo […]” Le parole di Achille Bonito Oliva sul lavoro dello scultore romano introducono Tanit Terra Madre, mostra inaugurata in occasione della IX Giornata del Contemporaneo al Baglio di Stefano a seguito della Residenza artistica presso la Fondazione Orestiadi di Gibellina.
Sergio Tumminello è costruttore di mondi, produttore di una cosmologia immaginaria; lavoro complesso, che a fronte della massima semplificazione della forma e della ripetitività quasi ossessiva di pochi, pochissimi elementi, tanto allegorici quanto narrativi, cerca di dare risposta a domande ed enigmi originari. Per comprenderne il messaggio bisogna azionare un processo di decodificazione fatto di rimandi a simboli e segni atavici e universali, a culture di antiche civiltà, a processi fisici, matematici e psichiatrici, immergersi completamente in uno spazio che diviene palcoscenico, ambiente, cogliendo ogni impercettibile elemento, perché qualsiasi traccia non è mai casuale. Tanit Terra Madre segna una tappa importante nel suo desiderio di dare misura antropomorfica alla materia uno spazio silenzioso, ovattato, che assorbe e respinge, due stanze completamente bianche, l’ultima nera.
Senza anticipare altro della nuova esposizione, ce ne facciamo raccontare la genesi dallo stesso autore, e i mesi a contatto con la realtà gibellinese.
Carlotta Monteverde: Ho accennato poc’anzi al concetto di Origine; vorrei partire da questo filo persistente che collega l’intera tua produzione.
Sergio Tuminello: Nei miei lavori parlo dell’origine dell’opera d’arte e di origine come scrittura, segno, lemma che produce un linguaggio, una storia.
Tutte le mie sculture sono originali perché hanno una radice e compongono una sceneggiatura di materiali, una narrazione. Essa sta anche nella primarietà delle forme, sono profili antichissimi, simili a sassi, levigati, ma di ascendenza mediterranea, riconoscibili da tutti. È un componimento di possibilità, rimango legato alla solita linea ma espandibile in infinite maniere.
C.M. Tanit terra Madre nasce dopo 5 mesi di Residenza a Gibellina; alla figura del Paturnio, che rappresenta l’uomo, si affiancano altri due personaggi. Enzo Fiammetta [Direttore del Museo delle Trame Mediterranee] ha parlato di azzeramento delle forme, operazione di pulizia totale, che ci riconduce verso una visione pura, primitiva, ancestrale. Come prende vita il progetto?
S.T. Gibellina è quasi al centro della Sicilia, al centro del Mediterraneo; la Fondazione è su di un terreno di montagne gessose che arrivano a valle e diventano laghetti di argilla…ho deciso di utilizzare i due materiali locali. Tanit è una dea del Mediterraneo, una dea madre, stilizzata: un cerchietto una linea orizzontale un triangolo; l’ho reinterpretata in maniera curvilinea, sinuosa, con le stesse rotondità del Paturnio. Da quella è nata un’altra figura, un Paturnio evoluto, a forma di gocce, la sua morfologia proviene dagli studi sulle fontane, i progetti intorno alle finestre della mostra precedente. Poi c’è l’essenzialità della linea, il lavoro sul bianco e provare a trasformare una Tanit in architettura, e infine una videoinstallazione su tulle, un effetto scenico teatrale.
C.M. Nel video torna il Pianeta, e compare un nuovo motivo decorativo, le nuvole c’è l’aria, il cielo. La terra è Tanit. Di contorno cuori e segni a significare fecondità.
S.T. La Madre Terra, la parte femminile. Il cielo è maschile lascia cadere il seme, l’acqua che fertilizza il suolo; in relazione alla Madre Terra esso è Padre Cielo. Sono i due elementi che quando si compongono generano la vitalità, l’incontro, la natura, l’uomo, tutto. E le due entità non sono mai scisse.
C.M. La Grande Madre, fotografata da Claudio Abate, è una scultura ambientale in ferro realizzata quattro anni fa. Dopo un periodo in cui hai approfondito altre tematiche, tralasciando questa ricerca, la ritrovi qui…
S.T. Non l’ho mai abbandonata, la spirale conteneva già l’unione di entrambi; trasporto sempre simboli all’interno delle forme. La mostra ha prodotto due nuovi personaggi, dunque i prossimi cartoni animati, sculture o quadri vivranno della loro aggiunta.
Aurelio Candido: A un certo punto hai fatto una scelta. Sono stato qui a giugno e ho visto i bozzetti, avevi imboccato molte direzioni. Poi hai scelto la via della mostra, ma potevi optare diversamente…
S.T. I primi mesi, giorni, ho aperto al massimo il ventaglio creativo, ma non ho rifiutato le altre strade. Ho immagazzinato un bagaglio ricchissimo, sperimentato una gamma estesa di possibilità che a un certo punto ho deciso di sintetizzare. In mostra vedi tre figure in cui ho stilizzato, ridotto le linee. La percezione è minima nelle forme e nel colore bianco su bianco.
A.C. Si intuisce che c’è un grande lavoro, non solo fisico ma mentale.
S.T. Sì, ma è stato anche istintivo. Ha ragione Cucchi quando dice che per lavorare bene bisogna avere la mente sgombra. Tutti i processi mentali sono collaterali, marginali.
A.C. La sintesi è sgombero…
S.T. L’impasto dell’acqua e del gesso, dell’acqua e della terra arrivano.
Gli oggetti che ne sono nati sembrano sublimare la materia, sono strutture diafane senza uno spigolo, a infiniti gradi, quasi sferici, il più vicino possibile al cerchio e all’aspetto vitale umano. È il massimo della sintesi figurativa, rimanendo nelle curve di Bézier e nella loro immediatezza.
C.M. Nella mostra c’è anche una sorta di esperimento scientifico, o gioco…

S.T. Il parallasse è l’elemento fisico che abbiamo per percepire la rotazione della Terra attorno al Sole e le distanze tra gli astri, la prima osservazione astrofisica.
Questo nel macrocosmo. Nel microcosmo dà la tridimensionalità alla veduta. Ho distribuito una formina che riproduce, in piccolo, le fatture di Tanit.
Posizionandosi di fronte alla scultura e aprendo e chiudendo l’uno e l’altro occhio, alternatamente, ci si accorge che la visione monoculare crea dimensionalità, e quando si riporta l’oggetto alla giusta distanza si percepisce bidimensionale.
Dura una frazione di secondo.
C.M. Parliamo dell’esperienza al Baglio di Stefano. Come hai coinvolto le persone del posto?
S.T. Sebbene abbia fatto molta vita isolata, la gente della Fondazione è stata sempre presente, ognuno facendo una cosa, portandomi a estendere il lavoro a 24 ore notte, mattina, pomeriggio, con cicli produttivi costanti.
A.C. Ricordo la volta scorsa, la convivialità e la cucina. Ti sei messo a fare il cuoco per tutto lo staff della Fondazione, occasione di incontro e confronto importante…
S.T. È servito a riportare il luogo non solo a un ambiente di lavoro ma di vita. Il fatto che abbia funzionato una cucina costantemente ha reso il Baglio reale e non museale.
A.C. E finiti i momenti di comunione tutti andavano via e restavi solo, quindi alternavi attimi di scambio a solitudine, anche estrema. Sei tu che ti definisci eremita.
S.T. In realtà è un sito suggestivo; questo, sommato a un lavoro continuo, non danno l’impressione di solitudine. C’è una tensione tale che non senti l’isolamento.
A.C. Hai attraversato anche momenti di crisi…
S.T. C’è stata una potente crisi dopo una fase iper produttiva e creativa.
Ho portato la curva esistenziale in un punto altissimo, poi inevitabilmente – essendo la vita a forma di sinusoide – questo picco così alto ha ritrovato una valle profondissima. E lì c’è stato il crollo, a cavallo di ferragosto.
Ho cercato di gestire il caldo ma alla fine è arrivata la stanchezza psicofisica.
C.M. Oltre al contatto costante con i responsabili della Fondazione, hai tenuto dei laboratori con i bambini di Gibellina.
S.T. Sì, con più di 100 bambini da 3-4 paesi limitrofi. Ho realizzato 20-30 formine, loro le hanno stampate e rielaborate; hanno fatto un’operazione di creazione e interpretazione. Abbiamo anche una documentazione fotografica.
Davvero appassionante perché vedevi l’istintività e il gioco nel manipolare l’argilla.
Li abbiamo usati per la mostra, tutti quegli elementi decorativi applicati alle pareti.
A.C. I bambini sono molto più ricettivi degli adulti. Questi ultimi si mettono in soggezione e magari in concorrenza a te, mentre un bimbo accetta la provocazione, ed è subito un divertimento.
S.T. Subito. Ho fatto delle classi private per persone grandi in un’Associazione Culturale e l’impulsività dei più piccoli nel fare, nel provare, ecc. non esiste nell’adulto. È diverso l’approccio. È come vedere uno sprint… in 20 minuti avevano già elaborato, costruito, distrutto, ripensato, creato un’altra cosa.
C.M. Venendo a Gibellina ti sei confrontato con opere d’arte pensate per un contesto e una scala diversa dal consueto. Senti di averne subito influenza?
S.T. Il logo delle Fondazione è un disco con 12 simboli. Uno è un umanoide e io ho mediato la forma tra il Paturnio e quella, ed è uscita la forma a goccia.
A.C. Ne hai tenuto conto, però poi la tua strada è autonoma. E il Museo delle Trame ti ha condizionato?
S.T. Sì, ma in un altro senso ha fatto il dovere che doveva fare, mi ha emozionato.
C’è un’esposizione permanente, una collezione forte; vedere quotidianamente i lavori di Raffaellino, Guttuso, Boetti, Beuys è suggestivo. Poi non ho ritradotto didascalicamente, ma ha pesato moltissimo.
C.M. Anche il clima culturale differente ha avuto effetto. Nelle due Tanit a parete avverto un’influenza quasi araba; non si nota lo spazio rinascimentale o barocco romano…
S.T. Sì, anche se sono stato prevalentemente qui. Noi mi sono mosso. Ho fatto un lavoro di rimanere sul posto, fare molte ore di studio.
C.M. Gibellina, questa città è stata creata anche dagli artisti, cercando di ricostruire un’identità e una memoria a un popolo cui era stata rasa al suolo la propria storia.
Sta funzionando il progetto di Corrao?
S.T. Le nuove generazioni non fanno vandalismo, non scrivono sui monumenti e cominciano ad amare l’identità di questo luogo, che sono le opere d’arte.
Ludovico Corrao era sicuramente una persona illuminata, ma come aveva sostenitori, aveva anche detrattori, e la ricostruzione è stato un enorme sforzo perché non c’era solo la parte propositiva ma anche oppositiva. Oggi i giovani hanno assorbito il messaggio, hanno curiosità, riescono a capire perché qualcuno dipinge, progetta o scolpisce. Chi cresce in un’urbanistica contemporanea credo viva una realtà più complessa e si faccia delle domande diverse. Come dice Achille Bonito Oliva, l’arte serve per massaggiare un muscolo atrofizzato nel cervello. Quindi l’operazione sta riuscendo, ma ci vogliono ancora anni, se pensi che ne sono passati solo 45.
A.C. Io ho avuto l’impressione che la generazione coinvolta nel terremoto non sia molto partecipe della nuova Gibellina. Probabilmente la maggior parte non sa chi sia Quaroni o chi sia Purini. Gli altri paesi del Belice neanche hanno una parte vecchia.
Ad esempio Salaparuta Nuova è stata costruita sulle rovine e di questa non c’è più nulla. In Friuli, Venzone o Gemona sono state ripristinate pietra su pietra, il duomo di entrambi i paesi rieretto tale e quale, con le stesse pietre. Lì posso anche credere che le radici siano rimaste, qui no. Nelle vecchie generazioni, quindi, non si potrà mai ricucire lo strappo che si è creato; nelle nuove forse sì…
S.T. Pensiamo anche al Cretto di Burri, che è un’opera visitata a livello mondiale; è importante, ma non tutti hanno amato vedere le loro case, i resti cementificati.
È una cimiterializzazione della loro memoria, un’operazione violenta. Credo che a molti sarebbe piaciuto ritornare per i vicoli del proprio paese e ripercorrerli…
Non trovo altro modo per chiudere se non con una riflessione di Diego Bisso, che ha ascoltato in silenzio tutta la conversazione tra di noi.
Diego Bisso: La prima cosa che colpisce a Gibellina è il decadimento architettonico, il contemporaneo che si sta sfaldando, talmente accelerato perché i materiali sono più esposti, più sperimentali, e non sono stati pensati per durare 100-200 anni. Tutto ciò convive con le Residenze degli artisti, che vi arrivano e continuano ad abitarlo e a produrre, con una quantità di interventi, numericamente, un po' per la scala del paese, un po’ per il fatto che il meccanismo che ha generato quel tipo di operazioni, che è in controtendenza rispetto ad altrove, è sempre in piedi.
Vedere la città che si sgretola ferisce, però c’è sempre chi continua a lavorare e magari ha la possibilità di usare quel decadimento come materiale e innescare un processo produttivo più veloce o un cambiamento più attivo.
È una visione ottimistica ma secondo me questa brevità dell’accadere è un’ottima benzina creativa.
Articolo pubblicato su ArtApp 13 | IL MEDITERRANEO

Chi è | Carlotta Monteverde
(Roma, 1981) ha studiato Storia dell’Arte all’Università di Roma Tre. Cofondatrice nel 2010 della Takeawaygallery di Roma - per la quale cura la comunicazione e la pianificazione di mostre, prediligendo e promuovendo principalmente giovani artisti che lavorano relazionandosi con lo spazio - si occupa di divulgazione di arte contemporanea scrivendo su blog, riviste specializzate e cataloghi.
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Chi è | Aurelio Candido
Giornalista, grafico e fotografo. Dopo aver lavorato come grafico a Milano e Cagliari, viene chiamato al Messaggero di Roma. Dopo l’uscita dal giornale collabora con Piergiorgio Maoloni al restyling di quotidiani e riviste. Apre un proprio studio che nel 1988 diviene l’Aurelio Candido & Partners. Inizia la collaborazione con il Wwf, gli Amici della Terra, Legambiente. È autore del progetto grafico di ArtApp di cui è direttore responsabile e artdirector.
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