Monologo del mal di pancia
Una giovane scrittrice racconta con disincanto e lucida allegria il “mal di pancia” delle donne

Sono su un treno che corre piuttosto velocemente verso ovest, seduta al finestrino. Al di là del vetro scorrono rapidi paesaggi sfuocati e piatti, sta piovigginando. Davanti a me un signore distino, sulla quarantina, dall’affascinante volto affilato, legge con aria divertita un libro ingiallito. Ogni tanto scoppia in una risata piena, chiudendo gli occhi ed alzando le sopracciglia nere, perfettamente arcuate.
Nella mia testa, nel frattempo, una coltre appannata di analgesici tiene a bada l’inferno. All’altezza del mio stomaco una bolla di nausea densa comprime i polmoni. Ho una serie di immagini, a) Il mio ventre è un nido di vipere che si sbranano tra loro, b) tutti i miei organi interni si stanno sfaldando e il corpo si contorce per strizzarli fuori direttamente in mezzo alle mie gambe, c) una squadra di operai miniaturizzati ha deciso per qualche assurda ragione di stabilirsi nelle mie viscere e puntare cento micro martelli pneumatici contro le pareti del mio utero.
Fottutissimo ciclo.
Quando decide di farti impazzire, non è che tu possa fare molto di più che raggomitolarti da qualche parte e tentare di battere nuovi record di bestemmie e concorsi per l’improperio più fantasioso. Il mio non è vittimismo femminista dell’ultima ora, giuro. La mia è solo la constatazione che nella notte dei tempi qualcosa è andato storto nella distribuzione dei diritti e dei dolori.
Dalla prima volta che l’ho vista, quella bastarda macchiolina rosa sulle mie mutandine di dodicenne, ho capito che c’era puzza di maledizione. Non poteva essere così, andiamo. Perché una bimba di dodici anni doveva essere costretta a portare quella tremenda ferita sanguinante che non si rimarginava mai, mentre i suoi coetanei scoprivano candidamente le gioie delle prime polluzioni notturne?
Quando ho perso la verginità, poi, ne ho avuto la certezza. Ma perché diavolo io dovevo soffrire come un cane, stringere i denti e aspettare che passasse, mentre lui veleggiava beota da un orgasmo a un altro? Era chiaro che qualcuno ci aveva fregate. Eva, tu sia maledetta, tu e la tua fottutissima voglia di mele. Non era meglio una fragola e la beatitudine eterna? Una macedonia e la pace dei sensi? Sei donna, lo capisco, la perfezione edenica alla lunga ti stufava, volevi andare a curiosare un po’ nel dolore. Ma credimi, Eva, avresti docilmente ripiegato sulle pere se avessi provato almeno una volta la sensazione di un assorbente umidiccio sulla pelle. Hai condannato le tue figlie ai crampi addominali, alle nausee mattutine, ai tamponi interni, alle borse dell’acqua calda. Le hai legate a doppio nodo alla tortura del parto.
Quando mia madre ebbe mia sorella, avevo otto anni. Pochi mesi prima, avevo assistito al parto della mia gatta e pensavo che anche per la mamma sarebbe stata la stessa cosa. Si sarebbe sdraiata e avrebbe aspettato finché la mia sorellina non se la fosse sentita di scivolare fuori, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Invece la mamma iniziò a urlare. Quelle urla, Dio mio, come se la stessero scuoiando dall’interno. Mi pareva assurdo che a tutti sembrasse normale che soffrisse in quel modo. Volevo gridare ai dottori: ma perché sta soffrendo così? Lei non è malata, non ha niente che non vada, non è così che deve funzionare! Quando quell’esserino rosso è uscito, lei già non si ricordava più niente ed era talmente piena di endorfine che il suo viso mi sembrava il più felice che avessi visto al mondo.

Ma io non le dimenticavo, quelle grida. Lo sapevi, Eva, che Dio era il più sadico e il più fantasioso dei punitori, quando hai deciso di ascoltare le parole sibilanti del serpente? È incredibile il sistema che si è inventato per ricordarci mensilmente le tue colpe. Un flusso di estrogeni impazziti si riversa nel nostro sangue, pronto a farci esplodere il cervello. Prima tristi da non poter più ricordare come fosse la felicità, disperate e piagnone. Poi improvvisamente e voracemente affamate, infine selvaticamente e ferocemente arrabbiate.
Raccontato così, sembra il peggiore dei cliché maschilisti: la donna lunatica che impazzisce, che dà di matto in quei giorni del mese, da cui bisogna tenersi alla larga quando ha "le sue cose". Vulnerabile, irrazionale, strega! Tutt’altro. Credetemi,
io amo essere donna. Odio non avere il controllo delle mie emozioni, odio i fianchi doloranti, la testa ovattata, le gambe gonfie.
Ma nonostante tutto, nel sorteggio dei sessi, credo ancora di essere stata la parte fortuna. Vorrei però che le donne, oggi, si dimenticassero meno spesso quello che sono. Ho la sensazione che ci siamo risvegliate dopo secoli di torpore in una società costruita su misura per gli uomini e ci siamo sentite maschi con un difetto di fabbricazione.
Dunque adesso per venire accettate da questa società ci siamo appiattite sui canoni dell’uomo, come se fosse il nostro essere non tanto diverse da loro a renderci degne di vivere tutto quello che per secoli ci è stato precluso. Abbiamo relegato in qualche angolo polveroso delle nostre pance il significato di essere donna, indossato la maschera dell’individuo neutro, robotico, sempre uguale a se stesso, giorno dopo giorno. Ma io credo che siamo diverse, invece. E dovremmo esserlo orgogliosamente, gioiosamente, altezzosamente, fieramente! Ma ora basta.
Questo non è un trattato di sociologia, questo è un viaggio in treno. Ed io mi sto già annoiando dei miei pensieri.
Articolo pubblicato su ArtApp 15 | LA DONNA

Chi è | Giuditta Mitidieri
Nasce negli scoppiettanti anni novanta in una non meglio specificata località del centro Italia. Nei successivi vent’anni studia, canta, beve chinotto e fa pochissima attività sportiva. Le piace il limone, Bertrand Russell, l'origine ebraica del suo nome e il mare selvatico della Liguria. Sogna un giorno di poter vivere sotto le sue coperte, leggendo il leggibile e ricevendo visite, di tanto in tanto. Finché le sarà possibile si consola scrivendo, come può.
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