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Decrescita: la sfida

Consumiamo troppo, mangiamo troppo, buttiamo troppo, costruiamo troppo. Da decenni viviamo nella convinzione che sia possibile una crescita infinita in un luogo, il nostro pianeta, ormai allo stremo

“La lumaca costruisce la delicata architettura del suo guscio aggiungendo una dopo l’altra delle spire sempre più larghe, poi smette bruscamente e comincia a creare delle circonvoluzioni stavolta decrescenti. Una sola spira più larga darebbe al guscio una dimensione sedici volte più grande. La lumaca, dimostrando un’innata saggezza ‘sa’ che quella eccessiva grandezza peggiorerebbe la qualità della sua esistenza e allora abbandona la ragione geometrica in favore di una progressione aritmetica.” Così il filosofo ed economista Serge Latouche, nel prendere spunto dalla natura, spiega con semplicità il concetto di “decrescita”. Consumiamo troppo, mangiamo troppo, buttiamo troppo, costruiamo troppo. Da decenni viviamo nella convinzione che sia possibile una crescita infinita in un luogo, il nostro pianeta, ormai allo stremo, ignorando limiti ed entropia.


Mettere in atto un nuovo stile di vita, riorganizzare il proprio quotidiano sovvertendo la lista delle priorità in tutti i settori in cui siamo coinvolti non è semplice, ma serve una nuova cultura per portare sollievo a tutti gli ecosistemi e a tutte le specie viventi, una cultura in grado di assumere la responsabilità dell’esistente e affrontare i problemi costituiti da un sistema economico fondato sulla crescita illimitata della produzione delle merci e sul rapporto di causa/ effetto tra questa crescita e l’esaurimento delle scorte non rinnovabili, l’inquinamento di aria, acqua e suolo, la distruzione degli ambienti naturali, le guerre e la disoccupazione.


Adottare quelle che gli ecologisti chiamano “buone pratiche” è una presa di coscienza che, in poco tempo, crea una soddisfazione diversa, nuova. Essere attivamente protagonisti di un cambiamento del proprio stile di vita, rivolto a una sobrietà consapevole, significa anche poter diventare un esempio che tende a incrementare il numero di persone che scelgono di a-crescere, di rallentare, di prendere il tempo per godere di cose dimenticate nella bulimica vita di tutti i giorni, aumentando così i membri di quella tribù soddisfatta e sorridente che ha scelto di invertire la marcia. In questa tribù i consumatori sono coloro che “consumano” i loro beni, senza sostituirli anzitempo con altri beni non necessari, sono persone che si ribellano ai canoni comportamentali massificati imposti dal consumismo, che hanno rivalutato l’autoproduzione di prodotti di uso quotidiano come il pane, i dolci, lo yogurt e, insieme ai nuovi gusti del cibo, hanno provato la gioia inedita del “non spreco”.


La sobrietà negli acquisti e il riconoscimento di bisogni reali e non indotti dai media si traduce nella riscoperta di valori accantonati e libera da una dipendenza che, dati alla mano, è controproducente per la qualità della propria vita e, a caduta, per la società tutta. La decrescita è il nuovo paradigma che dovrebbe guidare scelte concrete e politiche. “Oggi la crescita è un affare redditizio solo a patto di farne sopportare il peso e il prezzo alla natura, alle generazioni future, alla salute dei consumatori, alle condizioni di lavoro degli operai e, soprattutto, ai paesi del sud” sostiene Latouche; per questo è necessario perseguire quella che il filosofo definisce “utopia concreta, nel senso positivo datole da Ernst Bloch”.


Cosa fare e come farlo per invertire i tassi di crescita? A-crescere significa soprattutto abbandonare l’obiettivo di una crescita illimitata e in questo modo modificare la ricerca di un profitto da parte dei detentori del capitale, privilegiando invece l’ambiente e dunque l’umanità. La società della decrescita dovrà poggiare su un sistema rovesciato di valori, dovrà avere rispetto della verità, senso della giustizia, responsabilità, coraggio della democrazia, elogio della differenza, dovere di solidarietà, uso dell’intelligenza. Dovrà ricalibrare i concetti di ricchezza e povertà, rarità e abbondanza, rivedere i rapporti sociali e promuovere la riconversione nel sistema produttivo spingendo sull’alienazione delle fabbriche di materie nocive a favore di quelle impegnate nella produzione di prodotti riciclati o utili al recupero dell’energia o atte a ridurre gli sprechi, in modo da gravare sempre meno sulla nostra povera biosfera.



Andrebbero ridotti anche gli orari di lavoro, per restituire a ognuno di noi il tempo da dedicare a tutto quello che rende la vita degna di essere vissuta. Concetto cardine di tutto il paradigma della decrescita e anche uno dei più anti moderni: “Se le idee devono ignorare le frontiere, al contrario i movimenti di merci e di capitali devono essere limitati all’indispensabile”. La cultura, la politica e il senso della vita devono ritrovare un “ancoraggio territoriale”. Le città sono elementi passivi che richiedono un incredibile movimento di merci per essere alimentate e alchimie metereologiche per rendere la loro aria più vivibile e respirabile. Alla domanda di cibo e aria fresca la risposta standard è lo spostamento di tonnellate di merci da una parte all’altra del pianeta (producendo per il solo trasporto, imballaggio, deposito e smaltimento del cibo sino al 40% dell’impronta ecologica di una città), bruciando combustibili fossili o producendo pericolose e imbarazzanti scorie nucleari, non facendo che aumentare il calore complessivo, nonché i conflitti sociali per l’accaparramento di risorse scarse e per la dismissione di rifiuti scomodi.



Dal dopoguerra a oggi abbiamo avuto, soprattutto nelle grandi città, un’architettura intensiva indipendente da un sistema di produzione alimentare e di energia. Se i bisogni primari dell’abitare sono avere un riparo, il cibo e l’energia, a questi bisogni l’età moderna ha pensato di rispondere separando e distanziando fisicamente sempre più le varie funzioni, in una zonizzazione molto radicale. La sfida di oggi è riunificare le diverse esigenze dell’abitare nei centri urbani, così da consentire al “popolo in a-crescita” di modificare stili e abitudini di vita. Progettare relazioni (e interazioni) piuttosto che confini significa un cambiamento radicale nel modo di costruire e di vivere: nel modo di pensare l’architettura, come solido e inanimato, alternativo allo spazio naturale e in continua trasformazione delle piante e degli animali, e di pensare la città come spazio abitativo, alternativo allo spazio produttivo della campagna e delle centrali di energia, adottando una nuova realtà più ibrida e flessibile: un sistema di urbanizzazione debole e diffusa, una città-campagna in cui le superfici dure e impermeabili del cemento, dell’asfalto e delle tegole vivono in stretta continuità con la superficie morbida e permeabile dei manti e delle pareti erbose e queste, a loro volta, vivono in continuità con apparati tecnologici avanzati in grado di captare e rendere disponibile l’energia diffusa dell’ambiente.


La meta è poter abitare un edificio che sia anche una postazione di produzione vegetale, elettrica e di trattamento delle acque, rimesse in circolo per i servizi e l’irrigazione, in un sistema di continuità tra costruzioni e natura stessa attraverso l’utilizzo di sistemi biologici, sistemi in grado di usare materia ed energia senza produrre rifiuti ma processi ciclici, catene circolari chiuse e continuamente ritornanti in modo da offrire spazi vegetali, superfici verdi, orti, serre, boschi, giardini, disposti in prossimità, sopra, sotto, all’interno o sulla superficie stessa degli spazi costruiti. E il PIL? Tutti sappiamo cosa significa la sigla, ma pochi sanno che il Prodotto Interno Lordo non misura l’incremento dei beni prodotti da un sistema economico, ma l’incremento delle merci scambiate con denaro. Ridurre la portata delle merci nella vita quotidiana di tutti noi è inversamente proporzionale alla produzione del PIL ma ci trasforma in cittadini consapevoli dei propri bisogni reali, autonomi, sobri, emancipati da un impoverimento culturale e, perciò, soddisfatti di avere una parte attiva nel definire il presente per modificare il futuro.



© Edizioni Archos

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