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Estetica ecologica come pensiero sostenibile

La sostenibilità ambientale non può prescindere da un’estetica che nella nostra cultura si chiama arte, della quale l’architettura è parte e di cui si nutre


Forum Fondazione Bertarelli, Poggi del Sasso (GR) | Foto © Mauro Davoli

Dieter Hoffmann-Axthelm, circa vent'anni fa, riteneva ormai desueta l’immagine dell’architettura quale mediazione tra l’uomo e l’ambiente (Lotus dicembre ’93) definendo, nello stesso articolo, «l’architetto come lo specialista dell’aspetto, dell’immagine; anche quando l’architettura tratta di ecologia – dice – lo fa dal punto di vista estetico». Ma l’estetica ecologica ha ben poche chances nel limitare l’usura del nostro pianeta e del resto, come insegnava Hannes Meyer, direttore del Bauhaus, “costruire non è un processo estetico”. Yves Michaud sostiene che “il XXI secolo è l’epoca del trionfo dell’estetica, dell’adorazione e del culto della bellezza”.


Non sono affatto convinto della teoria di Hoffmann e ritengo improprio e riduttivo riunire le diverse attitudini e specializzazioni dell’architetto sotto il solo grande ombrello dell’estetica, considerata l’unico mezzo di comunicazione e convinzione. In difesa di un’architettura sostenibile, perché in grado di possedere poteri terapeutici nello spazio abitato, sono portato a differenziare l’approccio progettuale di molti architetti-designer contemporanei da quello dell’architetto vitruviano. Progettisti di entità diverse per scopi diversi anche se spesso, forse, pericolosamente riuniti in un’unica persona.


“Vitruvio è radicale nella sua condanna incentrata solo su un intendimento astratto e unilaterale – intendimento riduttivo e falso che oggi paradossalmente si presenta non di rado sia in versione solo tecnicistica sia in versione solo artistica – dell’etica della convinzione” (Nicola Emery, Edizioni Idea). Le tematiche di sostenibilità – i tetti verdi, le installazioni ecologiche di facciate vegetali, i collettori fotovoltaici, che in termini energetici sono più costosi di quanto producono – vengono troppo spesso affrontate in modo estetico più che di contenuto. Rappresentazioni del desiderio di un ambiente ecologico. Affatto deprecabili, ma solo tecniche di buona volontà con le quali saturare il bisogno di ecologia. Esercizi funzionalisti spesso acritici, virtuosismi solo per un esibito formalismo. Niente a che vedere con i postulati vitruviani dell’architettura, che come scopo principale hanno quello di aver cura dell’oikonomia, della convenienza.


Design e architettura soffrono oggi certamente dello schematismo del sistema produttivo di un’economia di mercato. Vittime di un’industria culturale che mira a privare l’arte della sua autonomia mediante l’imposizione di cliché belli e pronti. Una prassi già introdotta dalla moda, che per sua definizione cambia e si consuma perché per sopravvivere ha bisogno di una continua e ossessiva ricerca del nuovo. Nell’epoca del consumo estetico di massa pare che, come l’arte, anche il design abbia per scopo produrre direttamente esperienze singolari e intense. Importanti designer che hanno contribuito alla storia del design italiano sono ora sulla scena internazionale con architetture prestigiose. I loro progetti sono cambiati decisamente di scala, ma in qualche modo forse conservano lo stesso tipo di approccio progettuale. Nuovi giovani architetti cavalcano già la scena internazionale con progetti di grandi edifici modellati al CAD come opere d’arte o oggetti domestici.


Direi che quello che manca in questo genere di architettura, che mi viene da definire architettura di design, è soprattutto lo spazio per la riflessione, negata da un’ansiosa applicazione dell’estetica che Yves Michaud nel suo splendido saggio "L’arte allo stato gassoso" (Edizioni Idea) definisce estetica relazionale e della comunicazione. Secondo lui, nemmeno biasimabile. In fin dei conti, sostiene, questo aspetto “diffuso” dell’arte riduce gli sforzi per percepirla. In un mondo più bello probabilmente c’è meno su cui riflettere ma allontanarsi dalla riflessione significa anche ridurre il godimento estetico. A mio parere, l’errore di Hoffmann è confondere le identità professionali dell’architetto e del designer, dove diversi sono formazione e approccio sociale e ambientale. Su questo vorrei riflettere comparando le due figure, che forse inizialmente coincidevano e che ora, entrambe sempre più necessarie, sempre meno si assomigliano.


Due strade diverse, due percorsi difficilmente sovrapponibili che devono interagire. La forma mentis di chi è in grado di pensare a oggetti ottimizzati e riproducibili su scala industriale per migliaia di persone o di colui che desidera produrre suggestioni forti è diversa da quella di colui che pensa all’architettura, anche del singolo oggetto, come mezzo e spunto in grado di creare le condizioni perché accadano delle cose. Questo non significa che le due figure non possano ricondursi in un unico professionista, ma difficile credere che i due percorsi, partiti distinti, possano riunirsi. Creare desideri, generare sogni e ottenere le condizioni perché si realizzino è diverso da indurre abitudini, è diverso da modificare abitudini. La differenza non è affatto di poco conto, è profondamente e culturalmente diversa.


Vero è che a questa deriva spettacolare del design contemporaneo c’è chi – come Jasper Morrison e Naoto Fukasaua – oppone il movimento della New Simplicity e del Super Normal. Un ritorno d’interesse alla funzione e alla tecnologia che non parte dall’estetica, ma per questo appare anche più affascinante. Progetti meno sensazionali e più utili, non per questo meno speciali di quelli che vogliono stupire a ogni costo. Progetti e programmi di architettura, di arredo, ma anche di comunicazione, il cui motore creativo è rappresentato dalla necessità. Progetti che di speciale hanno soprattutto la capacità di educare, di far riflettere sull’ovvio e sull’ordinario, che rivisitati in termini culturali contemporanei, possono migliorare la vita e la convivenza, risolvere i problemi del singolo individuo e di una comunità.


In occasione del Dutch Design Awards 2010, una manifestazione ormai di riferimento internazionale dove il design non è solo produzione industriale, ma grafica, arredo urbano, architettura e moda, “si è valutato il valore aggiunto del design sull’economia nazionale. Il design in Olanda ha aumentato del 20% lo sviluppo e la crescita economica del paese in termini di prodotti e servizi. Un design che si forma sull’artigianato, sul modernismo teatrale, sull’approccio romantico degli storytellers” (presS/Tdesign Maria Elena Fauci), sulla convinzione che il progresso è fatto soprattutto da piccoli passi uno dopo l’altro. Se l’ambiente dove stiamo è la natura, abitarla (da habitus, abitudine, modo di esserci dentro, vicino) significa circondarsi di natura. Cos’è l’habitat se non una natura adattata alle abitudini di chi la vive in sintonia con i suoi ritmi, i suoi codici, il suo ordine?


L’habitat dell’animale è l’ambiente al quale si è adattato e che lui ha adattato a sé. L’habitat dell’uomo è la cultura, l’uomo ha inventato la cultura per piegare alle sue esigenze la natura, spesso per contrastarla. L’architettura è parte di questa cultura talvolta diffidente nei confronti della natura. Il vero salto di qualità dell’architetto è sempre stato trasformare questa diffidenza in amorevole curiosità. Martin Heidegger nel suo saggio "Costruire, abitare, pensare" osserva: “Per costruire bisogna saper abitare…il tratto fondamentale dell’abitare è l’aver cura. I mortali abitano nel modo dell’aver cura”. L’uomo contadino, artigiano, scultore, musicista, cuoco costruiva il suo attrezzo di lavoro. L’ambiente attorno a lui contribuiva affinché questa realtà avvenisse. L’architettura indubbiamente nasce come mediazione tra l’uomo e l’ambiente naturale. Nelle nostre metropoli, l’architettura deve mediare tra l’uomo e l’ambiente artificiale. Il confronto non è più con la natura, è con la città, ma questo non sposta il problema.


Oggi l’architettura ci deve proteggere soprattutto da noi stessi (dice Dieter Hoffmann), forse proprio dalla nostra cultura; tuttavia per lo più, proprio perché figlia di quella cultura, si limita a esserne parte. Questo probabilmente uno dei motivi del diffondersi di un’architettura autoreferenziata, di un’architettura di design, dove il design non collabora con l’architettura, ma la svuota da quella che è oggi la sua principale funzione, quella di difendersi da se stessa. Un fenomeno già verificato nelle grandi civiltà del passato, di immediato riscontro nelle ricche metropoli degli Emirati, ma ora dilagante a livello globale anche nelle piccole realtà.


Ritengo che il famoso manifesto di Giò Ponti "Dal cucchiaio alla città" abbia perso pericolosamente il suo vero significato dopo gli anni ’90. Mi sono laureato con Franca Helg, ho avuto il privilegio di frequentare lo studio Albini dove ho appreso il suo percorso progettuale partito dagli spazi e dagli oggetti domestici. Il mio primo lavoro di progettazione nello studio dell’architetto Tito Spini, amico di Alvar Aalto e di Le Corbusier, fu il citofono per una palazzina di quattro appartamenti. L’architetto passò con me più di un ora per spiegarmi i motivi ergonomici per i quali scegliere l’impugnatura del rubinetto della stessa palazzina. Erano le necessarie premesse per scendere nell’intimo vivere dell’uomo nella città. Il citofono e il rubinetto erano per quella casa, per quelle persone. Non si trattava di un progetto di design, ma di architettura.

Architettura significa influenzare il modo di abitare anche modificando il modo di vivere della committenza, proponendo differenti stili di vita non solo a livello individualistico, ma all’interno di uno scenario culturale ricercato mediante una diffusa qualità sociale, riorientando i desideri, utilizzando la tecnologia per smarcarci dallo spreco e dall’emarginazione, come lo è stato nelle grandi trasformazioni sociali della storia. Buone pratiche indirizzate a pensare nuovi e vecchi spazi per diverse utilizzazioni. I nostri luoghi abitati diventano sempre meno abitabili e non lo diventeranno di più con design accattivanti, ma rendendo possibili nuovi comportamenti, concentrandosi ad esempio sulla cultura della riduzione non solo come necessità, ma come migliore opportunità, concentrandosi su un diverso approccio col traffico meccanico riportando l’automobile alla sua funzione di mezzo e non di scopo e ancora considerando la televisione come un mezzo per comunicare e non come un parente stretto.


Sono assolutamente certo della pari importanza nel mondo dell’architettura del designer e dell’architetto, come del resto dello strutturista, dell’urbanista e di tante altre figure indispensabili e non più integrabili in un’unica persona; ritengo che ognuna di queste figure professionali sia complementare, ma non sovrapponibile all’altra. E credo anche che il coordinamento, se deve esserci, sia dell’architetto. “Una forma di sopravvivenza” così Aldo Rossi definì l’architettura, intendendola come artificio per rendere abitabile un luogo. Non credo intendesse artificio estetico, di facciata, bensì qualcosa di molto più necessario e atavico. Tuttavia la ricerca della sostenibilità non può prescindere da un’estetica della sostenibilità che nella nostra cultura si chiama arte, della quale l’architettura è parte e di cui si nutre. Non uno stile né un linguaggio, ma un pensiero ecologico deve guidare la nostra cultura ed esserne il presupposto dove il design non sia il fine bensì il mezzo per rappresentarlo.




© Edizioni Archos

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