Il mito del bianco
Nel Mare Nostrum si è fissata una sorta di oleografia mediterranea che ruota, soprattutto in architettura, attorno al bianco
"L'Acropoli di Atene" Frédéric Boissonas (1858-1946) | Stampa alla gelatina d'argento, 1900
"Il bravo pittore sa usare alla perfezione le qualità della superficie bianca per tradurre direttamente la Luce che, provenendo dal Sole, penetra nello spazio” […] “e il colore bianco in Architettura è ben più di una pura astrazione. È una base sicura ed efficace per lavorare con la Luce: per catturarla, rifletterla, per farla incidere, per farla scivolare. E lo spazio viene controllato controllando la Luce, illuminando le bianche superfici che lo formano." Sono parole di Alberto Campo Baeza, riprese da A. Pizza, in “La ricerca di un’architettura astratta, Alberto Campo Baeza. Progetti e costruzioni”, Electa, 1999. Un’opinione oramai condivisa e trasversale a varie discipline è che il termine “paesaggio” sia ambiguo, esplicitamente duplice nel significare allo stesso tempo una cosa e la rappresentazione di questa, in aderenza a quanto il vocabolo “landscape” sta a indicare più direttamente. Tuttavia, è dalla condizione di nascita del termine, scaturita con la presa di coscienza dell’inevitabile presenza dell’osservatore come condizione per l’origine di un insieme paesaggistico, che si giustifica l’ambivalenza della definizione.
Più precisamente, la definizione di un paesaggio è per l’appunto subordinata al riconoscimento di un rapporto di relazione tra uomo e natura. È necessaria cioè un’attribuzione di significato e di valore affinché nasca un’idea di paesaggio, poiché non è sufficiente soltanto l’interazione fisica tra le due entità. In linea con quanto affermiamo, scrive Carlo Doglio: «il paesaggio non è per niente reale bensì una mera proiezione di elaborazioni psichiche individuali sopra, e da, materiali esterni forniti così dalla natura immobile come dalle sue trasformazioni tanto genetiche quanto concausate da interventi umani». Intorno al mare nostrum, in tema appunto di paesaggio e propria storia, l’idea collettiva di una mediterraneità “bianca” rivela una raffinata dimensione concettuale dell’assunto, chiaramente proiezione psichica, di un condensato d’immagini e significati eterogenei che si ricompongono in un’idea generale tanto condivisa quanto equivoca (che è propria di un mito).
"The door of perception" Étienne Louis Boullée
Questa “dimensione mediterranea” vaga e partecipata, pur non attingendo a riferimenti univoci (visivi, concettuali, figurativi, ambientali), è difatti in grado di richiamare - specie in Architettura - suggestioni tanto convergenti da aver ormai fissato una sorta di oleografia mediterranea. La definizione non è casuale: se essa permette di parlare di un’architettura (mediterranea) come parte di un’entità unitaria - presunzione più complicata, ad esempio, per un’architettura nordica – questo avviene in virtù di una proiezione collettiva alimentata da mitologie d’area tra le quali quella di un’idea intorno al “bianco”. Il riferimento viene da un’immagine del Mediterraneo, figurativa e letteraria, tramandata dai viaggiatori colti del Nord, come riconoscenza ad un ideale, utopico appunto, di assoluto, incarnato da una classicità ellenica immersa nella luce e nello spazio mediterraneo; non è l’autorevolezza della classicità in quanto tale, ma è l’idilliaca Arcadia, una pura creazione dello spirito, che si fa emblema di un ordine superiore, indecifrabile e custodito nell’Acropoli.
Con le dovute eccezioni, molti intellettuali contribuiranno al consolidamento di questo “mito del bianco”: ci sono i tanti protagonisti dei Voyages d’Orient, ma al contempo anche personaggi insubordinati come un Louis Kahn che invece riempirà i suoi taccuini con paesaggi classici in rosso, blu, verde, ecc... Così, attraverso il Novecento, il bianco si affermerà come pura creazione dello spirito, come manifestazione stessa della dimensione superiore in cui si colloca un agire progettuale. Dopotutto, a suffragare l’ipotesi di equivocità - “occhi che non vedono”, parafrasando Le Corbusier - sia il fondato sospetto di una sgargiante policromia originaria della classicità che ha solo subito il candeggio del sole e l’usura del tempo. Sarebbe interessante, invece, verificare quanta parte abbia avuto in questa sorta di “equivoco moderno” la tradizione di immagini rigorosamente in bianco e nero. A partire, per esempio, dalla raccolta delle foto del Partenone e dell’Acropoli di Fred Boissonnas, pubblicata da Le Corbusier in “Vers une Architecture”, che restituisce uno sguardo affatto neutrale sui monumenti; fino ad arrivare alla famosa serie fotografica dei bianchi silos americani riportata in Europa da Walter Gropius (presa poi a prestito da Le Corbusier) che pure andrà ad alimentare il mito.
Claude-Nicolas Ledoux, progetto per una casa delle guardie campestri, 1790 circa. Parigi, Bibliothèque Nationale
I taccuini, le immagini dell’Acropoli, quelle dei silos e altre meno note, con qualche sapiente ritocco sul bianco e nero, asseconderanno un desiderio del Moderno di riconoscersi e di affermarsi come nuovo classico, con un’aspirazione all’assoluto che è facile interpretare come il bisogno di rifondare l’Architettura. Il ricorso al bianco in architettura è da intendersi come un vero e proprio programma di palingenesi, e non è un caso se strategie analoghe erano state adottate anche in passato, ad esempio dai tre architetti rivoluzionari, Étienne Louis Boullée, Claude-Nicolas Ledoux e Jean Jacques Lequeu, preoccupati, anche loro, di rifondare statuti e pratiche della disciplina con un programma basato sulla composizione di semplici volumi bianchi.
L’esaltazione dei valori di ritmica e plasticità da parte dei modernisti si accompagnerà oltretutto ad una sorta di mistica luminescente che il Moderno, col suo progressismo, assumerà quale valore simbolo nelle sue accezioni funzionaliste. La redenzione dell’habitat umano passerà, infatti, attraverso la conquista di standard igienici, che troveranno naturale espressione in edifici bianchi, luminosi ed aerati. Un trionfo del bianco che com’è noto sarà celebrato nel 1927 al Weißenhof Siedlung di Stoccarda, ma dove pure non mancherà d’essere stigmatizzato: ricordiamo solo quella cartolina satirica in cui le strade del suddetto quartiere appariranno affollate di beduini e cammelli.
Un mito, quello del bianco, che resisterà anche all’indomani della fase eroica del Movimento Moderno, con il recupero e soprattutto l’invenzione dei caratteri vernacolari, la fondazione ancora una volta di una mediterraneità, ora con un’accezione più ampia e inclusiva, che spazia dai Poblados de Colonizaciòn in Spagna di Fernandez Del Amo e Alejandro De la Sota, alle esperienze neorealiste italiane, come La Martella, fino ai momenti più alti della nostra architettura con le ville a Santa Marinella di Luigi Moretti. Dunque anche nell’architettura del dopoguerra l’uso del bianco accompagnerà primordiali ambizioni di rifondazione; riemergerà quando pulsioni, più o meno consce, tenderanno verso una dimensione assoluta o di palingenesi. Sarà così per Mies Van Der Rohe, che con la Farnsworth House, bianca, fisserà un punto di arrivo; e ancora per Le Corbusier, che con la Cappella a Ronchamp segnerà difatti una ripartenza.
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