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Il sonno della città contemporanea genera mostri

La mancanza di identità delle periferie e della città informale genera negli abitanti il desiderio di andare alla ricerca di luoghi identitari e se non li si trova, di inventarne di nuovi


Frank O. Ghery, Guggenheim Museum, Bilbao | Foto © Fondazione Solomon R. Guggenheim


Le periferie hanno dilagato nella cosiddetta città diffusa e quest’ultima, a ridosso delle metropoli “povere”, è mutata in città informale, infinito agglomerato di baraccopoli, impossibile da gestire, difficile da trasformare. La mancanza di identità delle periferie e della città informale genera negli abitanti il desiderio di andare alla ricerca di luoghi identitari e se non li si trova, di inventarne di nuovi. Di qui il grande innamoramento per i centri storici, in particolare quelli italiani, con il desiderio di riportare a casa un pezzetto di identità cristallizzata in un gadget che si può facilmente acquistare nel corso principale di una cittadina dai connotati medievali, divenuto un vero e proprio mall all’aria aperta.


Questa immagine di qualità urbana, congelata nei secoli precedenti, diventa la prospettiva auspicata per la costruzione del nuovo, senza preoccuparsi del carattere di finzione che può assumere questa operazione. Le normative delle soprintendenze propongono un finto ritorno al passato, con una costruzione dalle caratteristiche tecniche contemporanee, prevalentemente con l’uso del cemento armato, “vestite” all’antica, con murature di mattoni, meglio se fatti a mano, parapetti con colonnine prefabbricate in calcestruzzo, copertura in tegole tradizionali - i cosiddetti coppi -. Questa dinamica regressiva diventa ancor più legge quando si tratta di ricostruire i fabbricati di un paese appenninico raso al suolo dal sisma, applicando la regola del com’era dov’era, che se aveva un senso nel ricostruire lo straordinario centro di Varsavia dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, diventa un approccio velleitario laddove i manufatti distrutti non possedevano le qualità formali delle piazze della capitale polacca.


Le Corbusier, Palazzo dell'Assemblea a Chandigarh | Foto © Luca Bullero


Si sfiora poi il ridicolo quando questa regola del finto-antico connota l’edificazione ex-novo - magari in condizioni paesaggistiche che andrebbero altrimenti preservate - di villaggi turistici, come è accaduto dagli anni '60 in particolare sulla sarda Costa Smeralda, dove in più soffiava il vento di una riproposizione di non ben identificati caratteri mediterranei. E infine, il tocco da maestro di un kitsch globalizzato inventa l’immagine commerciale degli outlet, realizzata con strutture minime - tipo quelle dei film western all’italiana girati a Cinecittà o in Spagna – che camuffano capannoni espositivi e di vendita da luoghi della storia, dove possa essere gradevole andare a passeggiare immaginando di essere nel corso della cittadina medievale di cui sopra, con lo stesso fine, solo e unicamente del consumo. Questa ambigua ricerca dell’identità ha il suo risvolto nel rifiuto di tutto ciò che in architettura è moderno e contemporaneo, a meno di qualche accattivante invenzione proposta dall’archistar di turno, a cominciare dal fenomeno F. O. Gehry e dal successo del suo Museo Guggenheim di Bilbao.


Una architettura fatta di oggetti, talvolta anche di qualità, poggiati sul plafond urbano senza alcun rapporto con il contesto: non quindi un’architettura contemporanea con caratteri identitari, che sappia rielaborare i materiali della tradizione in un progetto innovativo. Un insegnamento in controtendenza arriva da una rilettura contemporanea del libro dell’architetto catalano Carlos Martì Arìs “Le variazioni dell’identità”, che provava a fine anni '90 a definire l’identità di manufatti monumentali, riordinandoli e raggruppandoli secondo famiglie tipologiche, analizzandone le invarianti formali, le permanenze ma anche le variazioni, mettendo in sequenza, per esempio, le grandi cattedrali gotiche delle città francesi come Parigi, Bourges, Chartres, Reims, Amiens, Beauvais. Questa identità tipologica tra architetture è basata sul concetto di analogia e può apparentare anche edifici contemporanei con manufatti storici come per esempio nella comparazione diacronica che Arìs propone tra l’Altes Museum di Karl Friedrich Schinkel, la Biblioteca Municipale di Asplund a Stoccolma (1920), il Palazzo dell’Assemblea di Le Corbusier a Chandigarh (1951), la Neue Staatsgalerie di James Stirling a Stoccarda (1984).


Identità in architettura vuole quindi significare un fil rouge tra le architetture, che dà forza al nuovo se ha radici nel passato, non in chiave nostalgica o imitativa delle forme, ma come struttura di relazioni tra le parti che la compongono che, pur in un contesto di invenzione, ripropongono elementi della saggezza di intere generazioni e non costituiscono solo il coup de théâtre di un genio o presunto tale. Questa modestia dell’architettura è la sola possibilità per costruire nuove relazioni con altre identità, spesso sottovalutate o messe proprio da parte, come l’identità del contesto e l’identità del paesaggio in cui vanno a collocarsi.

L’inserimento di una nuova architettura in un contesto, per esempio storico, non deve esprimere solo rispetto devozionale verso le preesistenze, paralizzante le scelte spaziali, formali, di immagine. La proposta contemporanea deve avere la capacità di tessere dei fili che la connettano a ciò che già c’era, costruendo equilibri più avanzati che ricostruiscano il tessuto di una nuova dignità urbana: occorre sapere rimettere in movimento qualcosa che era paralizzato in un’altra epoca, sia che fosse il medioevo, sia che fosse il periodo fascista.


Il rapporto con l’identità del paesaggio non può misurarsi solo con la sua immodificabilità, tanto propugnata dai movimenti ecologisti, ma partire proprio dalla considerazione che il più delle volte il paesaggio con cui l’architettura va a confrontarsi è frutto del lavoro dell’uomo e una sua reinterpretazione può costituire anche un'occasione di restauro con un approccio innovativo. Il contesto, il paesaggio, ma anche l’approccio tipologico possono comunque costituire dei tranelli tesi dallo scivoloso tema dell’identità se interpretato in maniera fondamentalista e passatista: gli errori sono sempre in agguato. Basta ricordare come esempio l’operazione di spoliazione della maggior parte dell’apparato decorativo barocco effettuata tra il 1969 e il 1972 dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici nel capolavoro del romanico abruzzese, costituito dalla Basilica di Santa Maria di Collemaggio, nel tentativo arbitrario di riportarla alla sua facies medievale due-trecentesca.


Gunnar Asplund, Biblioteca Municipale di Stoccolma | Foto © Fototour.it


Lo sguardo identitario tiene conto della tradizione e del passato, ma guarda inevitabilmente al futuro.

“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.” (Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, 1940)




© Edizioni Archos

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