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Un mare rosso sangue


Da Lampedusa a Otranto, nel Mediterraneo l’umanità migrante ha il suo simbolo nell’opera di Costas Varotsos "L’Approdo"

Nel mese di ottobre 2013 si è svolta nel Canale di Sicilia l’ennesima tragedia che ha colorato di rosso il Mediterraneo. Un barcone con circa 500 immigrati si è rovesciato e solo una minima parte delle persone a bordo si è salvata. Questo disastro ha riaperto la discussione sui respingimenti, sulla Bossi-Fini, ha interrogato la coscienza sonnolenta degli italiani che, per la prima volta, è sembrato si commuovessero, scoprendo una realtà fin qui rimossa. Nei cartelli delle associazioni di volontariato accorse a Lampedusa a “dare una mano” comparve la richiesta di avera un traghetto Libia-Italia, vera e unica possibile operazione umanitaria, la cui gestione verrà invece di nuovo messa in mano ai militari e ai mezzi della Marina.

Che una tragedia di questa portata sia stata una novità non è affatto vero; basta ricordare un affondamento rimosso, ancora nel Canale di Sicilia, nei pressi di Portopalo: la notte di Natale del 1996 nel canale di Sicilia, nel tentativo di sbarcare nel nostro Paese, circa trecento clandestini di origine pakistana, indiana e tamil morirono per l’affondamento di una “carretta del mare” del tutto inadeguata a sopportare un tale carico. Fatti del genere hanno offerto ispirazione al regista Emanuele Crialese per il film "Terra ferma"(2011), descrizione di un Mediterraneo attraversato dalle emigrazioni africane.

Basta tornare un po’ più indietro nel tempo, quando a solcare i mari fuggendo da una realtà difficile erano gli albanesi, viene alla mente il ricordo del controverso affondamento della ex-motovedetta Kater I Rades (Battello in rada), cui non è giovato di certo l’accostamento-speronamento di un pesante mezzo militare italiano, la fregata Zefiro: nella tragica notte del Venerdì Santo del 1997 l’imbarcazione naufraga nel Canale di Otranto con 120 persone a bordo. I superstiti saranno solo 34, i morti 57, in gran parte donne e bambini, e 24 i corpi non furono mai ritrovati. Qualche anno fa è stato riportato in superficie il relitto della misera imbarcazione: a Lampedusa c’è un vero e proprio cimitero di questi rottami, che verranno prima o poi distrutti. A Otranto, invece, approdo delle fughe albanesi, si è deciso di dare un ruolo evocativo e monumentale ai resti della Kater I Rades riemersi dalle acque.

L’artista e architetto Costas Varotsos ha intrecciato il materiale a lui più caro, le lastre di vetro, in questo caso usate e incastrate come scaglie. L’elenco delle ditte che si sono messe a disposizione per realizzare l’opera di Varotsos comincia con la Pilkinton, multinazionale del vetro, che ha offerto buona parte delle quasi venti tonnellate di vetro che sono state impiegate nell’opera; continua con la Cannone Group,specializzata nella demolizioni navali, che ha tagliato in due la motovedetta albanese per consentirne il trasporto da Brindisi, dove era stata collocata dopo il recupero dalle profondità marine, al porto di Otranto e il successivo intervento artistico; poi c’è la Design che ha tagliato e incollato oltre mille metri quadrati di vetro, i carpentieri della Trosoro che hanno realizzato la piattaforma di cemento armato che ha accolto il relitto della Kater.

L’elenco potrebbe continuare, dando il senso che davvero si possa parlare di un’opera collettiva: oltre ai soggetti istituzionali, alle imprese locali, agli artigiani e ai comuni cittadini che hanno collaborato alla sua realizzazione, ha partecipato anche un gruppo di giovani artisti provenienti da Egitto, Siria, Cipro, Albania, Montenegro, Francia. Del resto Costas non ha puntato all’individualismo protagonista che rischierebbe una forma di sciacallaggio sulla tragedia; come dice lui stesso: “L’artista è il mezzo di espressione di una comunità. Quello che ho sentito venendo qui era il bisogno di un segno positivo dopo la tragedia, il bisogno di guardare avanti, il bisogno di valori nuovi. [...] Ho guardato alla possibilità di trasformare una tragedia in un’opera d’arte come a una grande occasione. C’è un modo di dire, che viene dal greco antico, molto diffuso nel mio Paese, il cui senso è ‘non ci può essere il bene se non c’è il male. È dal male che scaturisce il bene’.”

Sul concetto di monumento, nel senso contemporaneo della parola, che tende a toglierne la patina retorica, e a dargli un ruolo “politico”, in un’intervista a Giorgio Bonomi, l’artista-architetto che vive e lavora nell’isola di Egina, ha detto: “Oggi la monumentalità dovrebbe trovare la sua dimensione politica, dovrebbe nascere dal reale e, con il reale, acquistare di nuovo la sua dimensione di equilibrio dello spazio-tempo, per non essere vomitata dalla realtà che vomita oggi qualsiasi cosa che cerca di manipolare ogni valore reale che le appartiene: la manipolazione oggi è nuda!”. Incontrando questo oggetto, ibridazione della condizione albanese post-comunista e della riflessione cristallizzata sul tema dell’emigrazione e della morte mediterranea, viene da pensare più che a un’installazione o a una scultura, direttamente a un’architettura, nell’accezione evocativa, in questo caso amplificata, proposta dall’estetica di G. Lukeasc ben descritta da Adolf Loos in Ornamento e delitto: “Se in un bosco troviamo un tumulo lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto un uomo. Questa è architettura”.

Articolo pubblicato su ArtApp 13 | IL MEDITERRANEO


© Edizioni Archos

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