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Global warming


Come le alterazioni antropiche influiscono sulla temperatura planetaria

Lo staccamento di una lastra di ghiaccio \ Greenpeace International

L’espressione riscaldamento globale, o global warming, indica il contributo fornito dalle attività della specie umana alla naturale oscillazione della temperatura media planetaria. La temperatura superficiale terrestre, infatti non è stabile, ma presenta un andamento fluttuante – le glaciazioni ce lo ricordano – tanto che dal 900 a. C. i climatologi hanno individuato undici fasi climatiche caratterizzanti, le ultime delle quali sono la Piccola Era Glaciale (1550-1850) e il ciclo caldo iniziato subito dopo di essa, nel quale ci troviamo tuttora. Il riscaldamento globale, dunque, altera un fenomeno di per sé non stabile e molto delicato, per cui occorre usare estrema cautela nell’analizzarlo.

Oltre a ciò, le fluttuazioni periodiche del clima non sempre sono regolari e costanti: per fare un solo esempio, il ciclo caldo iniziato poco più di un secolo e mezzo fa ha conosciuto negli anni Settanta del Novecento una fase di decremento, tanto che da più parti in quel decennio si parlò con toni molto allarmati di un global cooling che invece non c’era.

Quando, appena prima dell’alba degli anni Ottanta, la temperatura media della Terra ha ripreso a salire re-incanalandosi nella direzione intrapresa alla metà dell’Ottocento, l’idea di un raffreddamento climatico è rimasta nell’immaginario collettivo solo come conseguenza di un inverno nucleare dovuto a una possibile guerra. Nel febbraio 1979 il Programma Onu per l’ambiente (Unep, fondato nel 1972) ha organizzato la prima conferenza internazionale sul clima, tenutasi a Ginevra il 12-23 febbraio 1979, da cui è scaturita la richiesta ai governi di tutto il mondo di adoperarsi da subito per prevenire ogni possibile interferenza antropica sull’andamento naturale del quadro climatico e che ha posto le basi per la nascita del Programma mondiale di ricerche sul clima (Wcrp).

Nel 1982-83 grossa eco è stata destata dalla grande intensità del Niño, la quale ha messo in ginocchio l’economia peruviana e non solo, dal momento che si reputa plausibile che esso abbia causato 2.100 morti e tredici miliardi di dollari di danni in tutto il mondo. Il vero punto di svolta è stato tuttavia il 1987, unanimemente riconosciuto dagli osservatori come anno più caldo del XX secolo. In quell’anno il Worldwatch Institute ha pubblicato il suo rapporto State of the World in cui si affermava che l’incremento costante dell’anidride carbonica nell’atmosfera aveva dato il via al riscaldamento globale del pianeta.

Sempre nel 1987 si è staccato dall’Antartide un iceberg di 48 per 158 km e da allora i media si riempirono di notizie analoghe. Nel 1988, invece vi è stata la fondazione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), un comitato di scienziati il quale, sotto l’egida dell’Onu, ha iniziato ad approfondire e aggiornare le conoscenze sul clima e sui suoi cambiamenti, proponendo anche soluzioni. Negli anni Novanta la situazione è emersa con maggiore gravità. Il decennio in questione ha stabilito un primato, quello di periodo più caldo dell’ultimo secolo e mezzo. Come vedremo, si è trattato di un record destinato a non durare.

ROMEO GACAD/AFP/Getty Images

Alla conferenza Onu sull’ambiente e lo sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro il 2-14 giugno 1992 si sono fronteggiate posizioni estremamente divergenti tra loro: da un lato gli Usa e le nazioni in via di sviluppo che non volevano ridurre le emissioni di gas climalteranti, dall’altro i paesi del mondo occidentale, più decisi a intraprendere azioni di salvaguardia dell’equilibrio ambientale. Malgrado le divisioni, a Rio si sono poste le basi per la stesura del Protocollo di Kyoto, firmato l’11 dicembre 1997, il quale ha sancito l’obbligo, per i paesi firmatari, di ridurre entro il 2008-2012 le emissioni di gas serra in media del 5,2% rispetto a quelle registrate nel 1990, instaurando tuttavia un complesso e discutibile mercato delle quote di “sovra-ribasso” tra i paesi virtuosi e quelli incapaci di seguire le imposizioni scaturenti dall’accordo in questione.

Per limitarci all’Italia, gli studi sul riscaldamento ambientale proseguivano. Dal raffronto tra il catasto dei ghiacciai italiani del 1958 e quello del 1990 si è evinto che nel primo erano censiti 1036 ghiacciai (201 estinti; 90 con superficie minore di 5 ha; 745 con superficie superiore a 5 ha) mentre nel secondo i ghiacciai erano 1.114 (307 estinti; 101 con superficie inferiore a 5 ha; 706 con superficie superiore a 5 ha).

Gli esperti hanno affermato che l’arretramento e la frammentazione dei ghiacciai non poteva non avere cause anche antropiche. Aumentavano intanto anche i casi di crioclastismo (lo sfaldamento delle rocce montuose imputabile a variazioni delle temperature) dimostrati dalla frana della cresta granitica soprastante il ghiacciaio della Brenva (18 gennaio 1997) e dai distacchi rocciosi della Cima Thurwieser, in Val Zebrù, e il dalla Cima Una, in Val Fiscalina (12 ottobre 2007). L’ingresso nel nuovo secolo ha segnato eventi ancor più clamorosi di quelli dei decenni precedenti. Secondo uno studio pubblicato su «Environmental research», l’ondata di calore registratasi dal 1° giugno al 31 agosto 2003 ha causato nel nostro paese un eccesso di mortalità pari a 3.134 persone rispetto allo stesso periodo del 2002, mentre per la Francia si è parlato di oltre 15.000 morti nel solo mese di agosto.

Il 2005 e il 2010 hanno tolto al 2002 il titolo di anno più caldo dal 1850 a oggi e il decennio 2001-2010 si è rivelato ancor più caldo del precedente. La comunità scientifica ritiene in modo pressoché unanime che il riscaldamento globale alteri le oscillazioni naturali del clima terrestre. Nell’attuale periodo, il global warming causa un sovrappiù di aumento della temperatura superficiale media del pianeta. Se le cose non muteranno, quando terminerà il ciclo caldo iniziato alla metà del XIX secolo la Terra si raffredderà meno di quanto non farebbe in assenza di alterazioni antropiche.

L’Ipcc – che per le sue attività è stato insignito nel 2007 del Premio Nobel per la pace – ritiene che nel 2100 l’aumento della temperatura media planetaria potrebbe essere ricompreso da 1,1 e 6,4°C. Si tratta di un modello previsionale che va preso con molta cautela, ma che indica una tendenza di cui non si può non tenere conto.

Particolarmente delicato si presenta il problema per quanto concerne le città, vere e proprie isole di calore in cui gli effetti del global warming vengono amplificati. Sul «Guardian» del 25 febbraio 2014 la grande concentrazione di gas serra verificatasi sulle metropoli cinesi è stata definita dagli scienziati, a causa della sua intensità, somigliante a un inverno nucleare (e si consideri che uno studio apparso su «Lancet» all’inizio dell’anno ha affermato che l’inquinamento atmosferico provoca in Cina circa 500.000 decessi prematuri l’anno).

Troppo spesso privi di verde, con i suoli resi impermeabili alla pioggia da colate di asfalto e cemento, i centri urbani rivelano spesso un abbassamento della qualità ambientale che, in relazione al riscaldamento globale, potrebbe assumere connotati di invivibilità. Ma non è solo un problema dei centri urbani. Un’équipe di studiosi dell’Università del Massachusetts Amherst, ad esempio, ha trovato un eccesso di cortisolo nei peli di ottantotto orsi polari della Groenlandia analizzati tra il 1988 e il 2000 imputabile alle alterazioni climatiche. Fino a ora non si è fatto molto per arginare il riscaldamento globale. Secondo Oxfam, le dieci più grandi multinazionali del settore alimentare producono annualmente 263 milioni abbondanti di gas serra, più di Finlandia, Svezia, Norvegia e Danimarca messe assieme.

Lo scioglimento dei ghiacciai, il crioclastismo e l’estensione delle aree desertiche paiono non trovare argine alcuno. In un rapporto dell’aprile 2014 l’Ipcc ha affermato che tra il 2000 e il 2010 l’aumento delle emissioni di gas serra a livello mondiale è aumentato più rapidamente rispetto ai decenni precedenti. Continuando di questo passo in un trentennio si potrebbe arrivare a un rilascio complessivo in atmosfera di ben 1.000 gigatonnellate di anidride carbonica e, stando a quanto riportato da Antonio Cianciullo sulle colonne della «Repubblica», nel 2100 un miliardo di persone che vivono in città potrebbero non disporre di acqua a sufficienza per i propri bisogni vitali, mentre 187 milioni di uomini e donne sarebbero costretti ad abbandonare le aree costiere a causa dell’innalzamento del livello del mare. Ogni allarmismo preconcetto è inopportuno ed errato, ma lo sarebbe molto di più in un atteggiamento di sottovalutazione del problema.

 

Chi è | Saverio Luzzi

Dottore di ricerca in Società, politica e culture dal Tardo medioevo all’Età contemporanea (Università di Roma “La Sapienza).

È autore di Salute e sanità nell’Italia repubblicana (Donzelli 2004) e de Il virus del benessere (Laterza 2009). Attualmente sta lavorando a una ricerca sulla storia del nucleare e insegna italiano, storia e geografia all’interno della Casa circondariale di Terni. Uno dei fondatori della Scuola permanente dell’abitare, del cui comitato scientifico fa parte.

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© Edizioni Archos

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