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Il volto umano e drammatico delle migrazioni

La cronaca ci narra troppo spesso le storie di persone che inseguono un sogno e muoiono nella solitudine del loro gesto disperato

Messico, 2019

Pateh Sabally era nato in Zambia e aveva solo 22 anni quando, il 21 gennaio 2017, si gettò nel Canal Grande e morì sotto sguardi increduli, incerti, assenti, distanti e anche beffardi, comunque incapaci di diventare braccia salvifiche. L’evento dava drammaticamente forma e sostanza ai due anni di indifferenza che l’avevano preceduto in cui Pateh aveva girovagato per l’Italia.
Tra gli aspetti che trasmettono un’immagine dei fenomeni migratori, la moltitudine e l’anonimato consentono di collocare l’infinita tragedia dei migranti in una quotidianità dove le differenze, l’ingiustizia, la fame, le guerre sono oggetto di condanna e contemporaneamente di impotenza, fino a diventare un dato nostro del tempo, una condizione del vivere stesso che spesso alimenta l’indifferenza. Così le distanze possono reggere, almeno fino al giorno in cui un giovane decide di buttarsi in acqua come Pateh e di morire; in quell’atto - e assurdamente - quella massa anonima di disperati diventa un nome con una storia, con un’origine, una famiglia, un’anima.

A Venezia come a Parigi, dove qualche giorno nel carrello di atterraggio di un aereo è apparso il corpicino di un bambino “di circa dieci anni”, scrivono le cronache. Come non riconoscere che quello che poi risulterà essere Laurent Ani, un ragazzino ivoriano di soli quattordici anni è il volto noto di una moltitudine senza nome, senza ragioni e senza speranze? Era il luglio del 1999. Yaguine Koita, di 15 anni, e Fodé Tounkara, di 14 si ritrovavano come tutte le sere nel parcheggio dell’aeroporto di Conakry, Ghana. Lì i due amici potevano studiare approfittando del sistema d‘illuminazione, che non avevano in casa. Sera dopo sera, essi avevano scritto una lettera al Parlamento Europeo per informarlo delle condizioni del loro paese e dell’Africa e di richiedere aiuto. Infine, scavalcarono la rete di recinzione e montarono sull’aereo per Bruxelles per consegnare personalmente la lettera. Ovviamente, arrivarono i loro corpi inerti e la lettera.
Il gesto è diventato il volto di una delle tante storie terribili delle migrazioni. Il regista Paolo Bianchini lesse la lettera qualche anno dopo e ne fece "Il sole dentro". Il film ha coinvolto una moltitudine di studenti ed è entrato in molte scuole italiane da cui sono partite tante nuove lettere per il Parlamento Europeo. Yaguine e Fodé sono diventati volti di un mondo che tuttavia continua a restare anonimo perché non trova il posto dovuto nel nostro quotidiano. Immersi nelle storie migratorie del nostro Mediterraneo, si continua a rimanere distanti da situazioni dove la terra sostituisce l’acqua del mare, come accade in America, dove il Messico è terra di passaggio di forti ondate migratorie alla ricerca del cosiddetto sogno americano. Una carovana di oltre tremila migranti si avvicina in questi giorni al confine messicano del sud per alimentare un fenomeno senza sosta in Messico, terra essa stessa di migranti. Si tratta di tante persone con tante storie che si perdono nel collettivo, nell’anonimato di una dimensione che si tende a circoscrivere e a costituire come un problema per sé, e a criminalizzare.
E appunto in quanto tale il fenomeno migratorio contrasta con la ragione che lo genera, ossia con l’istinto della sopravvivenza che è alla base stessa della vita e non può essere sostituito con nessun surrogato. In tale atmosfera. la criminalizzazione delle migrazioni è l’evidenza di una volontà distruttiva che si riversa anche su coloro che la mettono in essere. In essa è possibile vedere un aspetto innaturale proprio nel senso di contronatura per la pretesa di voler prescindere e rimuovere appunto l’istinto naturale della sopravvivenza che è una componente della vita.


© Edizioni Archos

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