Costruire un monastero, oggi
- Edoardo Milesi
- 16 ore fa
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 10 minuti fa
Da quali parametri partire per costruire un nuovo monastero nel terzo millennio? Come interpretare le sensazioni e i sogni di monaci cistercensi, obbedienti a una regola antica di 1.600 anni? Durante il convegno organizzato al Monastero di Siloe nel maggio scorso l'autore ha presentato le sue risposte

Monastero di Siloe, Cinigiano (GR) | Foto di Aurelio Candido
Intervento dell'architetto Edoardo Milesi al convegno "Costruire un monastero, oggi", Monastero di Siloe, 31 maggio 2025
“Volevo che le persone, arrivando a Siloe, fossero sopraffatte da una natura ospitante, ma non indifferente. Una natura indigena, ma ordinata. Così pure l’architettura del monastero doveva essere facilmente interpretabile, ma in grado di creare una qualche soggezione. Entra se hai deciso di entrare, non per caso. Non sono qui per caso, sono qui perché ti voglio incontrare”.

Luis Kahn diceva che il lavoro dell’architetto è interpretare le sensazioni e i sogni del suo committente, che quasi mai coincidono con quello che ci chiede, ma è quello che gli serve. Insomma, quello che ci viene chiesto molto spesso non è quello che serve. Per questo, mentre l’ascolto e la condivisione sono partecipate e collettive, il progetto non può che essere solitario, solo dell’architetto progettista e del suo staff. L’approccio non è diverso dal progettare qualsiasi altra cosa: una scuola o un ospedale. La cosa difficile è capire lo scopo, cosa deve produrre quell’architettura. Quello che ci interessa è come agisce la parte materiale sui comportamenti. Quanto riesce a influenzarli. Interpretare sensazioni e sogni dei monaci, una comunità eterogenea per culture, geografie, età, professioni, memorie diverse, non è semplice e poi quali monaci? Questi che conosco, qui e ora, o quelli che verranno? E poi gli ospiti, i visitatori, che sono la ragione del monastero.
Il compito dell’architetto è progettare una cosa concretamente utile, ma che serve a ottenerne altre assolutamente immateriali in grado di generare nuovi comportamenti. L’architettura, l’evento che fa accadere le cose, è la conseguenza dell’artefatto, delle architetture. Del resto, l’architettura nasce proprio con la religione che vuole, toccando in modo sinestetico i nostri sensi, influenzare gli animi, il pensiero, gli stili di vita, educare financo il corpo. È evidente che il luogo partecipa in modo determinante al rito.
Per interpretare le sensazioni e i sogni di monaci obbedienti a una regola antica di 1.600 anni ho dovuto studiarmela a conferma che per progettare il futuro abbiamo bisogno della storia. Dopo più di 500 anni di Impero Romano che presidiava infrastrutture globali, che emanava leggi e le faceva rispettare, che regolava una rete complessa e laboriosa di commerci e religioni, sopraggiunge il nulla, le regole spariscono, non c’è più un’autorità di riferimento, imperversa la violenza, i barbari attraversano l’Italia seminando il terrore. È in quel contesto che la regola di San Benedetto (534d.C) ha la sua fortuna, fondandosi su principi opposti a quelli imposti dall’impero: perseveranza, ascetismo, carità, preghiera, lavoro e umiltà, ma sempre obbedienza. L’uomo, che rispetto agli altri esseri viventi si è “scollato” dalla natura e dalle sue regole, ha bisogno di obbedire.

© Archivio Archos
Questi princìpi guidano i monaci nel loro cammino spirituale, incentivando la crescita individuale e la vita comunitaria. Ma i nostri monaci sono cistercensi: la riforma cistercense (1.000d.C) recupera l’austera regola di San Benedetto quando Cluny comincia a strutturarsi perdendo di vista i princìpi di povertà, umiltà, lavoro. Una grande sintesi, solo per farvi capire quante cose occorre ascoltare (a volte anche senza capirle veramente) perché il luogo che stiamo progettando possa collaborare allo scopo che i suoi primi fruitori si sono proposti, ma anche quelli che verranno dopo, i visitatori, gli ospiti, gli adepti.
Ora perché l’architetto possa creare un luogo in grado di collaborare al progetto deve entrarci dentro, subirne in qualche modo la fascinazione e tenere costantemente fede allo scopo che ritiene fondante. Quello che ho capito io di questa regola (che è quello che mi affascina) sta molto, se non tutto, nel cercare l’annullamento della vera causa di tutti i conflitti tra gli uomini: l’ego. L’annullamento dell’ego, secondo la regola, porterà alla comunione con Dio che per qualcuno è un essere superiore, giudicatore, amorevole e vendicativo e per altri è la compassione con il resto delle vite non solo umane.
Proprio in questo sta tutta la sostenibilità -se vogliamo usare un termine tanto abusato quanto vuoto- di un monastero: la capacità di annullare l’ego per entrare in comunione con Dio, con quello che Dio ha creato, quella “sostanza” (termine spinoziano) che permea ogni cosa. In natura non esistono ricchi e poveri, le guerre, lo sfruttamento dei più deboli, l’accrescimento dell’ego fine a sé stesso che, come lo ha definito Albert Einstein, è “il primigenio figlio dell’ignoranza”. Il vero freno a una comprensione etica del mondo”.

Monastero di Siloe, Cinigiano (GR) | Foto di Aurelio Candido
Quando ho laicamente capito che il compito principale del monastero è l’eliminazione dell’ego personale ho posto questo come obiettivo della mia opera cercando con ogni mezzo di far comprendere in ogni momento l’infinita profondità della natura nella quale siamo immersi e al contempo l’affinità tra il nostro microcosmo (mentale) e il macrocosmo (materiale) che ci circonda. Questo fa di noi esseri compassionevoli che è quanto ogni Dio giusto ci chiede. Personalmente poi, ritengo che la compassione vada rivolta a tutti gli esseri viventi e questo è uno dei punti su cui riflettere visto che nessuna religione monoteistica ce lo chiede.
La forma, l’esposizione al sole, i materiali, come vengono trattati, sono lo specchio del nostro modo di trattare tutti gli esseri viventi soprattutto dopo che la meccanica quantistica - ma i pitagorici già lo sapevano - ci ha dimostrato che la vita, la sua energia è ovunque anche nella materia apparentemente più immobile. Paul Valery ha scritto: “Dio è nei dettagli”. Sono i dettagli che dialogano (inconsciamente) col nostro corpo che a sua volta influenza la nostra mente.
Per questo motivo luce e silenzio sono i veri materiali coi quali è fatto il Monastero di Siloe. La luce, non c’è nient’altro in grado di rappresentare Dio, il silenzio perché ci costringe a confrontarci con la nostra interiorità nella quale risiede l’universo, assordante, incontenibile nella sua ricchezza di vite. Riuscire a far diventare l’architettura di Siloe cassa di risonanza di questo profondo concetto è la mia più grande ambizione. Il problema non si complica più di tanto se progettiamo il Monastero oltre che come luogo di culto anche come luogo sacro. Il luogo sacro infatti ha in sé la creazione che può avvenire solo attraverso un processo pubblico: un complesso sistema stratificato di relazioni dense tra la vita, la morte, la memoria, i miti, la cultura. Un processo collettivo il cui incipit è il genius loci.
L’azione collettiva, necessaria perché l’evento sia considerato sacro, è insita nella creazione. Del resto, anche il corpo umano quando viene al mondo diventa pubblico (piaccia o no), non è più solo della madre, comincia subito il suo gioco di relazioni/interazioni. L’architettura, d’altra parte, riguarda corpi che si trasformano tra la gente, nelle generazioni, nella storia, quindi è arte pubblica per definizione. La domanda è: l’atto della creazione (non dell’invenzione, ma della creazione) può spettare all’architettura? A un’azione umana?

Monastero di Siloe, Cinigiano (GR) | Chiesa e chiostro, foto di Aurelio Candido
Mario Botta (che di chiese la sa lunga) non ha dubbi: l’architettura è sacrale nell’essere semplicemente sé stessa. Come è sacro l’atto creativo della madre che genera la vita. L’architettura diventa sacra quando trasforma la natura in cultura, crea quando trasforma uno spazio in luogo. Crea il luogo che non c’era appunto. Anche per Sant’Agostino l’architettura è in grado di creare e definisce l’architetto “creatore di luoghi”. In un monastero il sacro si genera mediante un disperato desiderio di relazione con Dio che significa un mondo di relazioni. Ma sacro significa anche eterno, e allora quando un’architettura diventa eterna? Certamente non dipende dalla sua durabilità fisica, la torre di Babele ne è il riscontro universalmente riconosciuto.
Personalmente non ho mai avuto questa presunzione, al contrario ho lavorato perché del mio fare architetto ne rimanesse solo una leggera impronta, l’ombra, si direbbe nella cultura giapponese, attenta al dettaglio che germoglia spontaneo tra le trame del progetto il cui ripetersi, trasformarsi, rigenerarsi ne mantiene viva l’energia, la narrazione, più che la materia. E proprio qui sta l’eternità dell’architettura sacra, la sua capacità di rimanere nel tempo - anche se non reinterpretata - un luogo coerente con la contemporaneità, conferendo senso di appartenenza al di là della sua datazione, delle culture, delle civiltà, delle economie.
Le relazioni, che avvengono tra gli esseri viventi, tra la materia (apparentemente) inerte e i vivi, viene registrata in modo indelebile nella nostra memoria e trasmessa a chi viene dopo attraverso le cose, i loro odori, i loro colori, i loro suoni, il loro gusto, le loro forme, la luce e l’ombra che le colpisce e le attraversa. Questo il motivo che ci porta inconsciamente a fare il segno della croce o una qualsiasi reverenza interiore entrando anche solo nel rudere di un luogo che è stato sacro. “I luoghi rimangono sacri per sempre” mi ha insegnato l’amico teologo don Roberto Tagliaferri e da solo ho capito che succede perché lì le relazioni, così fitte e intense, talvolta sinestetiche e catartiche, hanno trasformato quello spazio in un luogo denso di significati simbolici nei quali non è difficile immergersi anche quando il suo utilizzo è cambiato, a patto che il nuovo evento di architettura ne abbia tenuto conto.