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Nell’era dell’attenzione breve. Lo sguardo affaticato del presente

Viviamo in un tempo che consuma lo sguardo e frammenta l’attenzione. Arte, architettura e comunicazione diventano allora luoghi di resistenza, spazi in cui reimparare a vedere.


Chromasonic: un'immersione nel Rinascimento del movimento minimalista californiano di luce e spazio. Satellite One, 2021. Venice Beach, Los Angeles / USA. Immagine © Chromasonic
Chromasonic: un'immersione nel Rinascimento del movimento minimalista californiano di luce e spazio. Satellite One, 2021. Venice Beach, Los Angeles / USA. Immagine © Chromasonic

C’è un rumore sottile che accompagna ogni gesto quotidiano, un ronzio quasi impercettibile fatto di notifiche e finestre che si sovrappongono. È il suono dell’attenzione che viene risucchiata e ricomposta in continuazione, senza mai trovare un luogo dove fermarsi. Viviamo in un’epoca che ci educa alla velocità più che alla profondità, che ci chiede di reagire prima ancora di capire, di scorrere invece di osservare. In questo panorama, il nostro modo di vedere si sta trasformando: lo sguardo è rapido, intermittente, frantumato.


La stanchezza digitale non è una percezione isolata; è diventata una condizione collettiva. Le immagini scorrono con la stessa impazienza con cui le consumiamo. Basti pensare a come vengono vissute grandi mostre come il Van Gogh Alive o le esperienze immersive di Monet Experience, dove la contemplazione cede spesso il passo alla ricerca dello scatto perfetto per lo smartphone. Anche i musei lo avvertono: la sala della Gioconda al Louvre, inghiottita da telefoni sollevati, è uno dei simboli di questa tensione culturale, dove l’atto di vedere è sostituito dall’atto di “registrare”.


Centre Pompidou-Metz. Foto © Christian Ries
Centre Pompidou-Metz. Foto © Christian Ries

Eppure, accanto a questa deriva, esiste un movimento contrario, più silenzioso ma non meno potente. Alcuni spazi culturali stanno scegliendo la lentezza come grammatica progettuale. Il Centre Pompidou-Metz, ad esempio, lavora da anni su allestimenti che valorizzano il vuoto, la pausa, la distanza, invitando il visitatore a prendersi il tempo necessario. Nel padiglione progettato da Shigeru Ban per il museo, la struttura in legno intrecciato filtra la luce naturale creando ambienti che obbligano lo sguardo a dilatarsi, a respirare, a ritrovare profondità.

Lo stesso accade nell’architettura del Museo delle Culture di Basilea di Herzog & de Meuron, dove la penombra, la misura delle aperture e il ritmo dei percorsi costruiscono un’esperienza completamente opposta a quella dello smartphone: uno sguardo che richiede presenza e durata. Qui la lentezza non è un lusso, ma un dispositivo critico. Il visitatore non può scorrere, deve abitare il tempo.


Anche la comunicazione visiva sta reagendo alla saturazione. Alcune campagne recenti hanno scelto deliberatamente l’anti-rumore. L’identità visiva di Milano Art Week 2024, ad esempio, firmata da Studio FM, ha rinunciato agli eccessi cromatici per adottare una grafica essenziale, quasi muta, che vive di bianchi, neri e grigi. Un modo per contrastare il caos visivo dei social e proporre un’esperienza percettiva più calma, più pulita, più rigorosa. Allo stesso modo, i poster di OMA per la ristrutturazione della sede di Sotheby’s London hanno scelto la sottrazione: testo minimo, spazi generosi, nessuna corsa a “catturare” lo sguardo. Un esercizio di resistenza tipografica.


Olafur Eliasson, The unspeakable openness of things, Pechino, 2018. © Courtesy l'artista.
Olafur Eliasson, The unspeakable openness of things, Pechino, 2018. © Courtesy l'artista.

L’arte, infine, continua a custodire spazi di lentezza anche nelle forme più contemporanee. Le installazioni di Olafur Eliasson, come Room for one colour o Your blind passenger, obbligano il corpo a entrare in un ritmo diverso: non si possono consumare in quattro secondi, chiedono una partecipazione totale, fisica, sensoriale. E Anselm Kiefer, con le sue tele monumentali, offre forse la risposta più radicale: opere che non si lasciano ridurre a un’inquadratura verticale di Instagram, che chiedono tempo, distanza, movimento.

In un’epoca di attenzione breve, difendere la profondità dello sguardo non è un atto nostalgico. È un gesto politico. La stanchezza digitale è un segnale d’allarme, ma può diventare anche una soglia: se impariamo ad ascoltarla, può trasformarsi in un invito a ricostruire un rapporto diverso con il mondo. Arte, architettura e grafica non sono soltanto strumenti estetici: sono mappe che ci guidano fuori dall’iperstimolazione, ci ricordano che vedere non è un’azione rapida ma un esercizio complesso, un modo per abitare il tempo.


Forse la vera contemporaneità comincia proprio qui, nel coraggio di rallentare e di vedere di nuovo.

© Edizioni Archos

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