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Il colore come gesto del nostro tempo

Dopo oltre un decennio dominato dal greige, il colore ricompare come gesto selettivo e intenzionale. Non un revival o un capriccio estetico, ma un movimento che racconta il modo in cui oggi viviamo, temiamo e desideriamo gli spazi


Duncan Hall, Rice University, Houston (John Outram, 1996)
Duncan Hall, Rice University, Houston (John Outram, 1996)

C’è stato un momento, nella seconda metà del Novecento, in cui il colore sembrava la risposta più immediata al bisogno di libertà. Le immagini saturavano i rossi, gli interni esplodevano in arancioni e ocra, l’architettura postmoderna giocava con tinte vive e geometrie ironiche, sfidando ogni idea di sobrietà. Il colore non era ornamento: era vitalità, dissenso, una presa di posizione contro un mondo troppo serio e prevedibile.

Riletto oggi, quel periodo appare come un tentativo di riallacciare il progetto alla sua dimensione emotiva. Attraverso il colore si esercitava una libertà che oggi fatichiamo a riconoscere: un atto di fiducia nella possibilità che la forma potesse trasformare il reale.


Poi, lentamente, il colore si è ritirato. Dal 2000 in poi — e ancor più negli anni 2010 — lo scenario visivo si è svuotato. Gli interni hanno iniziato a parlare in tono minore: grigi caldi, beige soffusi, greige calibrati, bianchi cremosi. Le superfici si sono fatte tattili, i materiali morbidi, gli spazi ovattati. La neutralità è diventata una forma di protezione: un modo per allontanare il caos, trovare tregua dalla saturazione digitale, recuperare silenzio.

Basta osservare gli interni monolitici di Aires Mateus, o il minimalismo rarefatto che ha dominato riviste e showroom per un intero decennio: un mondo in cui il colore sembrava quasi indecoroso, un’intrusione in ambienti che aspiravano alla sospensione.


Aires Mateus, forme pure e tonalità chiarissime per la ristrutturazione di una residenza del XVIII secolo a Lisbona. Foto di Ricardo Oliveira Alves
Aires Mateus, forme pure e tonalità chiarissime per la ristrutturazione di una residenza del XVIII secolo a Lisbona. Foto di Ricardo Oliveira Alves

Non è stato un cedimento improvviso, ma una necessità crescente di quiete. Il nostro tempo ha scelto di schermarsi, di abbassare la voce, di costruire una grammatica visiva che non sovrastasse mai. Era una forma di difesa. La neutralità diventava rifugio in un’epoca sovraesposta, ipertecnologica, stanca di immagini gridate. Le superfici smorzate erano un modo per tornare a respirare.


Oggi quell’equilibrio così perfettamente silenzioso comincia a incrinarsi.Sotto la superficie dei beige affiora un nuovo battito: un desiderio di densità, di presenza, di vita cromatica. Non un ritorno nostalgico ai colori gridati del Novecento, ma una maturità nuova, in cui il colore riemerge come accento, come gesto, come architettura emotiva. È un cambiamento che si avverte soprattutto negli interni e nel design, dove il colore torna a parlare con la sicurezza di chi non ha più bisogno di giustificarsi.

Nel lavoro di India Mahdavi, questa trasformazione è evidente: il colore non è decorazione, ma carattere. Il rosa lampone, il verde giada, i blu vellutati costruiscono ambienti emotivi, densi, accoglienti. Nelle sue mani il colore non invade, ma orienta; non distrae, ma definisce; non impone, ma racconta.


India Mahdavi, Le Germain - Parigi. Foto di Derek Hudson
India Mahdavi, Le Germain - Parigi. Foto di Derek Hudson

Ancora più sorprendente è ciò che è accaduto a Apple Park nel 2024. Il marchio che ha trasformato il bianco in un dogma estetico ha invitato Sabine Marcelis a introdurre installazioni in resina color ambra, rosa traslucido, arancio fuso, rosso minerale nel cuore del campus di Cupertino. Una deviazione radicale per un’azienda che per decenni ha costruito la propria identità sulla sottrazione. Marcelis non ha aggiunto semplici oggetti: ha imposto un nuovo ritmo percettivo, dimostrando che anche gli spazi più disciplinati possono diventare terreno fertile per un immaginario cromatico rinnovato.


Il messaggio è chiaro: il colore non torna per sovrastare il neutro, ma per affiancarlo. Non come saturazione, ma come evento. Non come eccesso, ma come significato.


L'installazione di Sabine Marcelis' all'Apple Park Observatory. Foto courtesy Apple
L'installazione di Sabine Marcelis' all'Apple Park Observatory. Foto courtesy Apple

Siamo in un momento di transizione. Il paesaggio neutro degli ultimi anni non scompare: si ritrae, si fa tela. Il colore, invece, torna a essere voce — una voce più matura, più selettiva, meno ingenua di quella del passato, ma finalmente libera di esistere. Perché il colore non parla solo di estetica: parla di desideri, di trasformazioni interiori, di nuove possibilità percettive. E quando ritorna davvero, significa che siamo pronti a guardare il mondo con occhi meno timorosi e più vivi.


Per questo oggi il colore appare spesso in punti strategici, come una nota musicale capace di modificare l’intera armonia pur intervenendo su un solo tasto. Il colore che ritorna è un atto di intenzione: una scelta che produce identità, che riapre un dialogo tra superficie e sguardo, che restituisce agli spazi quella profondità che il neutro, da solo, non riesce più a garantire.

Ecco perché, pur rimanendo la base emotiva del nostro tempo, la neutralità da sola comincia a non bastare. La società ha imparato a proteggersi; ora cerca nuovi modi per riconoscersi. Il colore — calibrato, misurato, ma vivo — è il segnale di una maturazione collettiva: il desiderio di tornare presenti dopo anni di silenzio, di raccontarsi senza rinunciare alla delicatezza acquisita.

© Edizioni Archos

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