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Edifici sacri dismessi: un patrimonio della memoria e dell'identità di un popolo

Gli edifici ecclesiali non sono reperti archeologici, che non hanno più niente da dirci, ma l’artefatto eloquente di quanto di meglio l’uomo abbia prodotto nel suo immaginario simbolico secolare



Abbazia di San Galgano, Chiusdino (SI) | Foto di Aurelio Candido


La secolarizzazione avanzata in cui non c’è più il duro pregiudizio anticlericale e in cui anche i laici disincantati ricercano una loro spiritualità “anateistica”, i luoghi sacri dismessi dal culto cristiano diventano segni artefatti dell’identità di un popolo e di una sacralità universale. Essi marcano un territorio “separato”, a cui si accede con un certo indugio e con un atteggiamento di pudore. Provocatoriamente si potrebbe dire che i luoghi sacri dismessi emanano sempre timore e tremore, insieme a pace e armonia, anche quando i secoli hanno sepolto la tradizione religiosa di riferimento.


La ragione di questo paradosso è che il luogo è un potente linguaggio comunicativo capace di trasmettere emozioni e memoria nonostante sia una sopravvivenza di un passato glorioso. Infatti l’edificio sacro condensa una presenza e produce un “genius loci”, che cattura l’immaginario. Gli edifici ecclesiali non sono le vestigia di un passato ormai tramontato, non sono i reperti archeologici, che non hanno più niente da dirci. Al contrario sono l’artefatto eloquente di quanto di meglio l’uomo abbia prodotto nel suo immaginario simbolico secolare, che ci parla ancora.


Il problema è che, al di là del depauperamento numerico dei fedeli praticanti e della carenza endemica del clero, vi è stato un cambiamento sociologico rilevante con l’inurbamento e lo svuotamento dei villaggi, nonché con la diminuzione drastica della popolazione con un calo demografico che registra un saldo negativo da molti anni. In questo contesto di repentini e macroscopici fenomeni sociali alterati è cambiata la geografia dei credenti, sradicati dalla loro storia e trapiantati in periferie anonime e senza legami tradizionali.


In breve tempo l’abbandono dei paesi d’origine, accompagnato dalla diminuzione delle vocazioni presbiterali, ha determinato una ristrutturazione della pastorale parrocchiale con chiese oramai accorpate in vicariati o in zone, con preti volanti che non risiedono più nel territorio. Il risultato è stato catastrofico con migliaia di chiese abbandonate e con la necessità di intervenire sul loro degrado strutturale e artistico.


L’enormità del fenomeno delle chiese dismesse non è solo legata alla immensità del patrimonio architettonico (95.000 chiese), ma riguarda anche una complessità storica sulla proprietà di questi edifici. Infatti in Italia sia le secolarizzazioni napoleoniche, sia l’incameramento da parte dello Stato italiano della millenaria mano morta della Chiesa (1855) non ha ancora trovato un punto di caduta accettabile. Circa 2000 chiese tra le più prestigiose dal 1866 appartengono al Fec (Fondo edifici di culto) e il fondo serviva per integrare lo stipendio di vescovi e parroci con la “congrua” e per la manutenzione delle strutture.


Con il Concordato del 1929, rivisto nel 1984, il Fec, che fa capo al Ministero degli interni, presiede alla loro conservazione. Il Fondo tuttavia prevedeva e prevede che queste chiese possano essere restituite come proprietà alla Chiesa, qualora richiedessero e vedessero riconosciuta la personalità giuridica, tipo parrocchia. Ma questo non accade perché le diocesi o i monasteri non hanno fondi sufficienti per la manutenzione.


La risposta da parte della gerarchia a questa nuova emergenza è stata lenta e imbarazzata, che ha prodotto un quadro di interventi infausti per gli edifici dismessi come locazione per gli stranieri senza tetto, come attività commerciali, come studi di architettura o addirittura come luoghi di culto per altre religioni.


Pensando al riuso bisogna fare i conti con le opere d’arte che abitano le chiese e che non possono essere lasciate alla portata di chiunque per gli atti vandalici, che normalmente saccheggiano il territorio. Così pure bisogna dare indicazioni più precise per il patrimonio mobile come gli altari, che non possono essere ridotti ad uso profano e quindi bisognerebbe rimuoverli o distruggerli. Una possibile soluzione a questi problemi pratici sarebbe di affidare alle comunità locali la tutela e la salvaguardia di questo patrimonio culturale. Mi risulta che le chiese senza parroco affidate alla gente del luogo sono spesso manutenute con estrema cura come parte integrante della propria tradizione.


Da ultimo un problema residuo niente affatto marginale è: chi paga? Su questo fronte le istituzioni civili e religiose dovrebbero convenire in un patto reciproco di collaborazione per l’interesse comune al tema. Segnalo a titolo di provocazione che la CEI, che si avvantaggia dello 8 x mille dei tributi devoluti dai contribuenti dovrebbe essere più generosa nel destinare una cifra maggiore alla manutenzione degli edifici di culto. Infatti nel suo bilancio prevede un saldo cospicuo ai bisogni dei poveri perché prima ci sarebbe l’umanità sofferente e poi il resto. Non è facile prendere posizione su temi così delicati e sensibili anche presso l’opinione pubblica.


Sicuramente la carità dei cristiani dovrebbe provvedere con più sensibilità alla miseria umana che grida aiuto. Solo si segnala che il contributo statale dello 8 x mille dovrebbe essere restituito alla comunità nazionale con interventi a favore di beni pubblici come gli edifici di culto. Tra l’altro vi sarebbe una giustificazione teologica, che invita la Chiesa a preoccuparsi prima del Regno di Dio e della sua giustizia. Interrogato sulla sua missione Gesù annunciò che era venuto per rivelare il Padre, lasciando a Cesare quello che pertiene a Cesare.


Non si intende dire che la Chiesa debba disinteressarsi dei viventi, come Gesù non è passato oltre la sofferenza dei poveri. S’intende far valere la missione specificatamente religiosa della Chiesa, che anche con gli artefatti di chiese dismesse può alimentare la spiritualità degli uomini lontani dalla fede. Questo è il compito precipuo della pastorale, che deve provvedere alla fame di anima per ritrovare la sua collocazione nel mondo contemporaneo complesso e diventato adulto.


Estratto dall'intervento di Padre Roberto Tagliaferri al convegno “Gli antichi edifici di culto - esempio di sostenibilità” del 9 novembre 2019 a Bergamo.





© Edizioni Archos

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