Identità nascoste / Heimat
Le fotografie non possiedono un’identità, la loro soggettività intrinseca, soggettività di colui che la crea e di colui che la osserva, apre nuovi modi di comprensione di ciò che ci circonda

Photo © F. Busonero, Petra, Jordan 2009
Dov’è, cos’è “Heimat”? Ha una definizione, una collocazione precisa? È un luogo? Una casa? Una famiglia? Heimat è sinonimo di “homeland”, patria, nostalgia del luogo natio. Heimat è uno stato d’animo sfuggente, un sentimento incompiuto che proviene da molto più lontano di quanto le nostre storie personali possano immaginare. Heimat è la necessità di raggiungere un’identità, quel senso del sé nell’appartenenza con quanto esiste o è esistito nelle nostre vite. Ho vissuto molti luoghi, e con essi molte case, in Francia, nel Medio Oriente, nei Caraibi, nel Pacifico, in Nord America, in Italia. Porto tutto questo dentro di me, una sorta di “puzzle” di paesaggi interiori dai quali, nel tempo, hanno preso origine le mie fotografie: immaginazione di molteplici identità e al tempo stesso schermo di protezione dalla mancanza di una singola e duratura identità.
Abito ognuno di questi luoghi ma nessuno mi appartiene compiutamente, nessuno di essi è Heimat. Heimat è la natura, il mare, i mari, la foresta, la terra, il cielo, tutti i giorni e tutte le notti che ho vissuto con essi: il luogo, la casa sono solo il rifugio interno, una forma di identità presunta che anela ad essere in armonia con le identità presunte dell’esterno. Le fotografie fanno questo per noi: non possiedono un’identità di per se stesse essendo astrazioni ricevute e prese dal reale (il vedere e il pensare sono un’interpretazione), eppure noi di un luogo, di un paesaggio, di un evento, di una persona ricordiamo soprattutto una fotografia - quell’immagine che nel tempo si sedimenta nella psiche sino a diventare parte inscindibile della nostra biografia, della nostra identità.
[...] In una sequenza del film “Notre Musique” J.L.Godard mostra agli studenti nella biblioteca distrutta di Sarajevo la fotografia di Richmond, Virginia, bombardata durante la Guerra Civile americana. Nel chiedere cosa la fotografia rappresenti e significhi, alcuni rispondono “Sarajevo”. Privata del suo riferimento temporale, la fotografia-documento fatta da un fotografo anonimo nel 1865 trascende i suoi confini storici e geografici acquistando una propria autonomia, una “identità” diversa, indipendente dal contesto originale. A colui che la guarda, essa, inconsciamente, richiama l’esperienza vissuta nella guerra: la perdita della sua Heimat, della sua identità di tempo e luogo. Se non leggiamo la didascalia che la circoscrive, l’immagine diventa una reliquia, un’archeologia nel presente, uno spettro di identità perdute, al pari del ritratto del re Seti II e della statua che all’improvviso mi apparve emergere dalle rocce di Petra o, ancora, dei manoscritti di Al-Aqsa, sorvegliati da una tomba.

C.Clifford, Alhambra, 1854
Per converso, R. Barthes scopre una identità inaspettata nel guardare la fotografia di C.Clifford, Alhambra,1854: ” […] questa fotografia antica mi commuove, perché, molto semplicemente, è là che vorrei vivere. Questo desiderio penetra dentro di me a una profondità e con radici che non conosco:[…] Qualunque cosa avvenga di me stesso, delle mie motivazioni, della mia ossessione), io ho voglia di vivere là, in consonanza - e tale consonanza non è mai soddisfatta dalla foto turistica. Per me le fotografie di paesaggi (urbani o agresti che siano) devono essere abitabili, e non visitabili.[…] Il mio desiderio é fantasmatico, esso nasce da una sorta di veggenza che sembra portarmi avanti, verso un tempo utopico, o riportarmi indietro, non so verso quale regione di me stesso: duplice movimento che Baudelaire ha cantato nell’ ”Invitation au voyage” e nella “Vie antérieure”. Dinanzi a questi paesaggi prediletti, è come se io fossi sicuro di esserci stato o di doverci andare.”
Quale regione, quale identità di noi stessi ricerchiamo? Questa urgenza mi riporta alla visione che una bambina ebbe dinanzi a una mia fotografia raffigurante un pesce farfalla dietro un corallo. Nel guardare l’immagine, la bambina fu presa da una crisi di pianto. Quando la maestra che l’accompagnava cercò di rincuorarla, la bambina rispose: «Il pesce, il mare stanno morendo». Per la bambina le propaggini del corallo rosso sono sangue: l’identità biologica del soggetto nella fotografia assume un’altra identità nel suo pensiero.

Photo © F.Busonero Butterfly fish and red coral, Fiji, 1995
La fotografia ci obbliga a parlare di quanto e cosa essa rappresenti: da una parte c’è il punto di vista del fotografo, la sua motivazione, e dall’altra l’apparente realtà del soggetto dinanzi alla lente. Inevitabilmente sorge il confronto con altre discipline, in questo caso la biologia che ci spiega cosa sia quel pesce e quel corallo; ma, al tempo stesso, l’immagine ci interroga e ci porta verso un’altra dimensione, ben più profonda: il nostro essere nel mondo che viviamo. La bambina fu preveggente. Nelle parole di E. Steichen: “Il ritratto (ogni fotografia è, in senso lato, un ritratto) non risiede nella macchina fotografica, ma su entrambi i lati di esso.” Lati di identità nascoste, nella luce di un istante, identità per un altro tempo, le cui conseguenze sono ignote. Il mare, la terra, la natura tutta che ci sostiene, lo vediamo, stanno morendo. Al pari della storia, la loro identità offesa non è più la stessa. Dove mai potremmo trovare un’altro luogo prediletto, un’altra heimat?
Estratto dall'articolo pubblicato sul numero 23 di ArtApp | L'Identità
Comments