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Identità e apparente disparità architettonica

Mansilla e Tuñón mostrano una via “neo-umanistica” con un’architettura anticonformista e anti monumentale per “avvicinare l’architettura alla vita, o meglio, l’architettura a chi la abita”


Museo delle Collezioni Reali, Madrid, Spagna | Photo © Luis Asin

Con “Identità” e “Differenza” (titolo originale Identität und Differenz), le due conferenze tenutesi in Germania nel 1957, Martin Heidegger affronta il problema del rapporto tra ‘essere’ ed ‘ente’, ma orientando la speculazione verso una forma meno accademica ed esoterica trattandosi di comunicazioni pubbliche. Heidegger avverte perciò, sin dalla premessa, i suoi lettori (o il pubblico) del fatto che si dovranno adoperare con una certa attenzione perché “in che senso la differenza derivi dall’essenza dell’identità è cosa che il lettore stesso deve scoprire prestando ascolto alla consonanza che regna tra evento (Ereignis) e divergenza (Austrag)”. [...] Heidegger, incamminandosi con l’immaginazione (Vordenken) e la memoria (Andenken), cioè puntando al futuro ma con lo sguardo al passato, auspicava pubblicamente un passo indietro del pensiero moderno per aprire - urgentemente - ad un movimento in grado di sottrarre l’uomo dal nichilismo della tecnica.


Questo incipit heideggeriano sul concetto di identità in epoca moderna - e ai suoi pericoli dietro un’errata interpretazione - ci appare qui d’attualità e calzante parlando brevemente dell’attività progettuale di Tuñón Arquitectos (in origine Mansilla+Tuñón Arquitectos). Infatti, ad una generale condizione di scetticismo che caratterizza la società contemporanea - una realtà che riporta al senso identitario e alle problematiche legate al lavoro e ai disastri - TA mostra una via “neo-umanistica” attraverso un’architettura anticonformista e anti monumentale. È una via segnata da “quattro carte” – uguaglianza e differenza, ambiguità e possibilità – [...] Le “carte” in effetti sono metafore da combinare con la realtà per svelarla, ovvero per “avvicinare l’architettura alla vita, o meglio, l’architettura a chi la abita” (P. Molins, Mansilla + Tuñón arquitectos dal 1992, Electa, Milano, 2007).


[...] Proveremo ora a “prestare attenzione alla via” in due progetti apparentemente diversi, nel Museo delle Collezioni Reali a Madrid (2003-2016) e nel Museo Nazionale dell’Afghanistan a Kabul (2012), dunque ad “esperire che cosa sia identità” nella loro architettura. Un principio, per esempio, sta nel lavoro col suolo. L’architettura di TA si fa spazio nel suolo, ma senza diventare protagonista: “per noi l’ideale sarebbe che gli edifici non si vedessero […] che non si guardasse l’edificio ma attraverso di esso” (L. M. Mansilla, L. Rojo, E. Tuñón, Escritos circenses, GG, Barcellona, 2005). Nella loro azione tende a prevalere una logica sottrattiva attraverso lo scavo; l’architettura così si disvela attraverso il sistema delle operazioni condotte sul paesaggio, per cui l’una e l’altro si comprendono reciprocamente attraverso l’interazione.


Museo delle Collezioni Reali, Madrid, Spagna | Photo © Luis Asin


Nel Museo delle Collezioni Reali a Madrid il gesto dell’asportare rimane come traccia sul luogo determinandone un carattere indiziario; ovvero quell’azione di levare ha la capacità di presentarsi, e non rappresentarsi, senza forma di mediazione alcuna, come uno stesso processo di costruzione. Il progetto di questo museo, proprio con lo scavo e il limite posto al bordo, un grande muro-abitato di contenimento, tende a ridurre il suo impatto ponendosi come basamento del Palazzo Reale. Mentre dalla Piazza de La Almudena, da dove si entra per scendere negli eventi, l’intervento è quasi invisibile; occorreva, infatti, preservare lo spazio aperto e la vista sul versante occidentale della città, sui giardini reali di Campo del Moro.


[...] L’architettura di TA diventa un esercizio di scrittura dove la città rappresenta il palinsesto su cui continuare un’accumulazione di azioni rivelatrici di cultura. È questa la via perseguita per il concorso del Museo Nazionale dell’Afghanistan a Kabul, che trova le sue tracce nelle tipologie spaziali dell’architettura musulmana, in particolare in quella della cittadella di Herat, in quella dei caravanserragli, e anche in quella della Grande Moschea di Cordova. Il progetto così prima circonda l’area con un muro spesso e abitato (come nei caravanserragli) e poi concentra lo spazio espositivo in un perimetro regolare dove il raggruppamento compatto di moduli a base quadrata e la possibilità di una sua crescita modulare (come ad Herat) rappresentano proprio la composizione.


Lo spazio espositivo è dato da una serie di spazi a cupola, autonomi e con luce dall’alto, generati a partire da una matrice spaziale a lati uguali. Il sistema è arricchito dalla scelta progettuale di ridurlo a tre dimensioni di celle distinte, anche rispetto alle altezze, per differenziare i vari spazi espositivi e allo stesso tempo per restituire una complessità spaziale identitaria (come a Cordova).


Estratto dall'articolo pubblicato sul numero 23 di ArtApp | L'Identità

© Edizioni Archos

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