Corpo Eretico. Dialogo di in tempo presente con Pier Paolo Pasolini
Marco Baliani
Ora che il Corpo Eretico del mio dialogo con Pasolini ha acquistato una forma quasi definitiva comincia la mia personale forma di sconforto. Sembra strano dirlo, ma è così. Certo che sono pieno di erotica contentezza per aver partorito queste parole, per aver trovato una voce e un corpo per dirle, per averle viste mutarsi nelle varie prove sceniche accadute nel frattempo, aver visto come il corpo perdeva pezzi, si mutilava necessariamente di parti dissonnati, una faccenda che capisci solo agendo il testo, ascoltando le reazioni degli spettatori, le critiche, i consigli a fine spettacolo, le domande che nascono. Certo, tutto questo è la incommensurabile gioia di questo mestiere artigianale che non è mai riproducibile, mai definibile in metodi o sistemi, è una pratica vivente di aggiustamenti continui fino a che senti il tuo corpo e la tua vice in sintonia col ritmo dell’opera, con la sua musica che solo ora si rivela. Nessuna scrittura a tavolino può restituire questo approccio performativo.
Eppure resta quel senso di sconforto. Si origina da due motivi. Il primo è che difficilmente nella vita che mi resta avrò ancora occasione di dedicarmi con così tanto fervore e spreco totale e necessario di tempo ad un gigante di artista come Pasolini. Tante le parole che ancora vorrei dirgli, i temi che non ho toccato, le questioni irrisolte, i nodi vitali che stanno lì a inquietarmi e che non ho avuto modi di affrontare. La sua idea di un teatro di parola che non mi ha mai convinto nonostante la mia narrazione orale sembri muoversi su quella scia, e invece scarta da tutt’altra parte, la sua ricerca di oralità riguarda solo la presenza-voce dell’attore, mentre la sua scrittura teatrale è volutamente alta e poetica, non trafitta dalla dimensione orale dell’atto scenico. Ma è questione troppo ardua da affrontare e so che mi rammaricherò di non averla saputa toccare.
E poi c’è la figura della madre, delle madri, di mamma Roma e della altre, anche qui mi sarebbe piaciuto dialogare ferocemente come sarebbe piaciuto a lui, ma non l’ho fatto. Il secondo motivo di disappunto che sempre mi accompagna alla conclusione di un’opera è legato agli scarti: ciò che viene scartato nella distillazione della messa in scena sono altri mondi toccati e abbandonati, che saranno persi per sempre. L’opera si presenta dunque come un corpo mutilato, la ricerca di una bellezza necessaria a quell’unico evento di esposizione, unico anche nella ripetizione delle repliche, vive grazie alla ineludibile uccisione di tante altre sostanze, che restano a palpitare debolmente nell’ombra e sento a volte come mi incolpassero di averle trascurate.
È come nella vita quando sei di fronte ad un crocicchio e dopo aver preso una delle due strade che avevi di fronte resta l’ombra dell’altra strada che non hai seguito, resta come altra possibilità che ti era stata offerta, e nel tempo si colora di chissà quali altri mondi avrebbe permesso di farti vivere. Solo che nella vita questo lo capisci solo dopo che il crocicchio è stato superato. Nella costruzione dell’opera artistica invece hai sempre la maledetta consapevolezza dei crocicchi che stai abbandonando e questo in me genera quel perdurante scontento di cui parlavo all’inizio. Ora devo solo non pensarci troppo e stare interamente dentro l’opera, come in quei racconti cinesi in cui l’artista entra direttamente nella tela del quadro che sta dipingendo, o della poesia che sta scrivendo e non ne esce più, ci si perde. Tocca perdersi per poi forse ritrovarsi?
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