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Bella e inutile è l'arte

La crisi più forte al mito della bellezza è venuta dalla considerazione che nell’arte esiste anche il brutto


Fontana, opera ready-made realizzata da Marel Duchamps nel 1927 utilizzando un comune orinatoio firmato "R. Mutt"


Perché è bella l’arte?

Perché è inutile.

Perché è brutta la vita?

Perché è tutta fini e propositi e intenzioni.

Tutti i suoi cammini sono tracciati per andare da un punto all’altro.

Chi ci indicherebbe la strada che va da un luogo da cui nessuno parte

A un luogo verso cui nessuno va!

 Fernando Pessoa

 

La provocazione di Pessoa sulla bellezza dell’arte per la sua inutilità sembra rispondere alla provocazione lanciata nel 1936 da Walter Benjamin sul destino dell’arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica. L'arte contemporanea ha inferto un duro colpo al paradigma classico del kalon-kagathon, dissolvendo i canoni di bellezza e di misura sostenuti dal pensiero mimetico della corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo (M. Foucault, Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli, 1978). Una babele semiologica ben rilevata dalle sedici versioni del Bello raccolte da Ogden e Richards (Ogdel, Richards, The Meaning of Beauty, in The Meaning of Meaning, 1923) sembra non concedere troppe speranze alla bellezza e alla creatività dell’arte. La “Grande Teoria”, che ha dominato la scena culturale fino a un recente passato, definiva il Bello come proporzione delle parti.


La rottura decisiva del paradigma avvenne nel Settecento sotto l’influsso dell’empirismo e del mutamento del gusto. Il Bello sarebbe qualcosa di inafferrabile, più soggettivo che oggettivo. “L’atteggiamento tipico dell’estetica settecentesca fu l’abbandono dell’ipotesi di una teoria generale, o il riconoscimento di una sola teoria, quella psicologica, dell’esperienza estetica” (W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee. L’Arte, il Bello, la Forma, la Creatività, l’Imitazione, l’Esperienza Estetica, Aesthetica Edizioni). Christian Wolff, seguendo Leibniz, considerò il Bello come perfezione, ovvero il Bello sarebbe la perfezione della conoscenza sensibile. Un suo allievo Alexander Baumgarten sviluppò questa idea e produsse la nuova scienza estetica, ovvero della conoscenza sensibile - repraesentatio sensitiva - (A. Baumgarten, Aestetica, 1750).


La crisi più forte al mito della bellezza è venuta dalla considerazione che nell’arte esiste anche il brutto. “Se l’arte - sostiene Karl Rosenkranz - vuol rendere intuitiva l’idea di un modo che non sia soltanto unilaterale, non può sottrarsi al brutto” (K. Rosenkranz, Estetica del Brutto, Aesthetica Edizioni, 1994). Nella collisione e nella dissonanza si ristabilisce un ordine. “Dispiego - continua Rosenkranz - tutto l’universo del brutto dalle sue prime nebulose - l’amorfia e l’asimmetria - per arrivare fino alle sue formazioni più intensive nell’infinita varietà della disorganizzazione del bello, attraverso la caricatura. L’assenza di forma, la scorrettezza e la deformità dello sfiguramento costituiscono i vari gradi di questa serie di metamorfosi, in sé dotata di consequenzialità” .


Il brutto per Rosenkranz è parte integrante del bello alla condizione finale di cedere gerarchicamente a esso. In questo trapasso epocale l’arte non perde forse anche la sua qualità estetico-percettiva a favore di un ispessimento ideologico che la distrugge? Chi è in grado di stabilire la linea di demarcazione tra provocazione culturale e trovata estemporanea con nessuna valenza artistica? Se non è l’opera a tracciare il solco, è forse il critico o il pubblico? Il critico rischia continuamente di trasformare l’arte in Teoria speculativa dell’arte, cioè di passare dal gioco linguistico della pragmatica a quello della semantica.


La sensazione è che la provocazione dell’”Urinatoio R. Mutt” di M. Duchamps o della “Merda d’artista in scatola” di P. Manzoni si trasformi in arte escrementizia se un museo come il Pecci di Prato si ostina a ospitare “Cloaca turbo”, l’opera del belga Wim Delvoye, che ingurgita 125 pasti al giorno per produrre 40 chili di feci. La verità è che non si può più parlare di bellezza, ma non si sa come salvarsi dalla banalità. Achille Bonito Oliva sostiene che si possa parlare ancora di bellezza se accanto ai criteri di memoria, armonia e forma si aggiunge anche quello di complessità, che è mancata all’arte classica fino a deperire nel manierismo più becero.


"Ogni opera d'arte - avvertiva Kandinsky - è figlia del suo tempo, e spesso è madre dei nostri sentimenti"; ebbene l'arte moderna è figlia della crisi d'orizzonte e madre del nostro disorientamento. La crisi è lo scuotimento della rasserenante centralità di un sapere rivelato, sconcerto di fronte alla frammentazione del mondo e a una verità impronunciabile a cui il linguaggio offre sempre nuove immagini per abitare l'enigma labirintico della realtà. Non si nega la verità, semplicemente si segnala la sua inaccessibilità finché siamo nella condizione della finitezza. È la verità labirintica dell'andirivieni attorno al centro senza poterlo mai abitare stabilmente. Il linguaggio artistico non poteva estraniarsi da tale dissoluzione.


L'indicibilità del vero, la frantumazione del significato ha prodotto un'enfatizzazione del significante, con una insistenza dell'arte sull'aspetto rappresentativo, sul significante, sull'analisi formale e sintattica. D. Eccher ha felicemente sottolineato questa deriva: "La perdita della referenzialità esterna ha prodotto la notte delle infinite stelle", dove non c'è una verità centrale ma la consapevolezza di un'assenza. L'opera d'arte si dissolve nel suo paradigma di canone e mostra le rughe, le viscere, le cicatrici, i miasmi. L'arte assume ogni frammento del mondo per violarlo nella sua semanticità comune e aprire un mondo nuovo.


Essa crea un varco, è un lampo nel pratico inerte del quotidiano, è stupore lacerante, è un’arma che riesce a sconfiggere la volgarità contemplativa dell’uomo. L'arte appoggia una pedagogia non lineare di oscillazioni traumatiche e serene. Permette di accogliere il nuovo senza timore attraverso il travestimento del bello o almeno dell’accattivante; essa corregge la vista corta e introduce una "guardata curva", non più frontale ma penetrante e sbilanciata sulla differenza. L'arte è la pratica dell'incurvamento della vista verso l'orizzonte fuori prospettiva in cui si annuncia una nuova creazione del mondo.

 

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