Nei giorni scorsi è morto Lawrence Ferlinghetti, classe 1919, mito della rivoluzione culturale americana del '900
Di lui dicevano che fosse l'ultimo rappresentante vivente della "Beat Generation", l'ultimo baluardo di quello che è stato il più grande movimento intellettuale e sociale della seconda metà del secolo scorso, ma lui diceva di se: «Arrivai a San Francisco nel 1951 indossando un basco. Semmai più che il primo dei Beat sono stato l’ultimo dei bohémien». Nato a Yonkers (NY) nel 1919, figlio di immigrati, dopo gli studi alla University of North Carolina entra nella marina degli Stati Uniti come comandante nella Seconda Guerra Mondiale. Nel 1947 ottiene un diploma post-laurea alla Columbia University e un dottorato alla Sorbona nel 1950. L’anno seguente si trasferisce a San Francisco dove insegna francese, dipinge e scrive di problematiche artistiche. È il periodo che Jack Kerouac etichetta come “Beat Generation”, il movimento giovanile libero e senza schemi che attira subito l'attenzione del pubblico e raggiungerà in seguito una straordinaria popolarità in tutto il mondo.
Con lui , oltre a Jack Kerouac, ci sono Allen Ginsberg, William S. Burroughs, Neal Cassady, Gregory Corso, a cui si aggiungono alcuni scrittori di San Francisco, come Michael McClure, Gary Snyder e Philip Whalen, tutti giovani artisti e intellettuali tra i 18 e i 30 anni che attraversavano l'America con mezzi di fortuna, si incontravano in una città per darsi appuntamento in un'altra, vivono di pochi spiccioli e ideali visionari. I beatnik basano la loro esistenza su una morale naturale non regolata da leggi e sull'assoluta onestà e franchezza; sono pacifisti, non hanno alcun interesse per il denaro, fanno uso di droghe e amano la musica jazz. Si ispirano agli artisti bohemienne, come Blake, Rimbaud o Baudelaire, per il loro modo di fuggire il reale; ma anche a W.C.Williams e Ezra Pound per la loro concretezza. La loro arma è l'assenza, una particolare categoria dello spirito, in cui coesiste la fuga, il viaggio e il nomadismo. La strada, il sacco a pelo, lo zaino in spalla e sempre un taccuino su cui scrivere, sono i loro simboli. Simboli di un modello di vita nato dall'esigenza del rifiuto del reale perché troppo limitato, troppo sofferente e insopportabilmente insoddisfacente.
Michael McClure, Bob Dylan, Allen Ginsberg, Julius Orlovsky e Lawrence Ferlinghetti
Lawrence Ferlinghetti ha vissuto una vita formidabile che ha attraversato tutta la storia del secondo '900, un'esistenza fatta di mille avventure creative e artistiche. È stato soprattutto l'editore della controcultura americana, ma anche poeta, pittore, autore radiofonico e traduttore. Ha iniziato a far parlare di se quando pubblica “L’Urlo” di Allen Ginsberg, sfidando la censura dell'epoca, allargando e sancendo così il principio della libertà di espressione non solo negli USA. Ferlinghetti è rimasto fino al suo ultimo giorno di vita l'erede di coloro che hanno creduto, e dimostrato, che la parola e l'arte possono cambiare il mondo, cambiando le coscienze; che la letteratura, la poesia e l'arte illuminano i tempi bui, i rapporti umani, le coscienze e aprono spiragli di luce anche quando tutto è sommerso dall'operato di coloro che vorrebbero gli esseri umani avvinti e condannati all'oscurità.
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