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Gianni Minà, ovvero dell’onestà intellettuale e del giornalismo coerente

Il ricordo del grande giornalista, e di un amico generoso


Gianni Minà | © laPresse


“Siamo convinti che…la grande sfida delle persone di buona volontà sia innanzitutto quella di ricordare e stigmatizzare ogni giorno l’inaccettabile annientamento in atto nei confronti del Sud del mondo…”. È quanto scrive Gianni Minà nell’editoriale di “LATINOAMERICA e tutti i Sud del Mondo”, la rivista che egli decide di rilanciare nella seconda metà dell’anno 2000. Al titolo della pubblicazione che era “Cubana” con Bruna Gobbi ed Enzo Santarelli, poi “Latinoamerica” con Alessandra Riccio, Minà aggiunge “Tutti i Sud del Mondo” definendone in maniera chiara la collocazione.


Il muro di Berlino è caduto da oltre un decennio, il “campo socialista” non esiste più e la globalizzazione continua la marcia trionfale con il suo passo omologante che annulla le differenze, crea centralità e periferie del mondo sulla ricchezza produttiva e finanziaria spingendo nel deserto del nulla le voci discordanti. Ed è proprio l’America Latina, quella regione che scrittori come García Márquez, Juan Rulfo e molti altri scrittori hanno collocato nella dimensione drammatica della “solitudine” a pagare, insieme all’Africa, il prezzo alto del silenzio fattuale che coincide con l’indifferenza colpevole dell’Europa. Non si può non cogliere nel gesto del giornalista torinese un grande coraggio la cui portata va valutata in termini di schieramento più culturale che politico, ma anche nel contesto dell’epoca berlusconiana e dell’ostracismo che inevitabilmente gli riserveranno i mass media pubblici e privati.

Il dato conduce direttamente all’onestà intellettuale e alla coerenza di Gianni Minà con la professione da lui esercitata, in cui la collocazione della parola traspare nel suo senso, in una visione, in una umanità; da ciò emerge un giornalismo che non cerca la notizia per soddisfare una qualche curiosità o di dare alimento ai salotti, ma per mettere in luce l’umanità dell’interlocutore o la ragione del fatto in esame.


Credo, inoltre, che la decisione di intraprendere l’ardua sfida editoriale schierandosi con il Sud del mondo inteso metaforicamente come la “zona d’ombra o del silenzio o della solitudine coatta”, corrisponda ad una domanda qualitativa di Gianni Minà maturata con un lungo percorso conoscitivo in cui egli è umanamente coinvolto, in cui indaga per un proprio impulso, una propria sensibilità. Le sue interviste cercano simpatia, mirano all’incontro con l’intervistato e perciò sono dialogo e costruzione dello spessore antropologico della celebrità o anche del successo per evidenziarlo non tanto come dato del mestiere, ma del modo di essere, di un atteggiamento verso la vita.


Il suo non è un giornalismo invadente, ma leggero e nello stesso tempo consistente, perché tende a formare la creatura dell’incontro, si potrebbe dire, a lasciare una traccia del passaggio, un senso che non si esaurisce nella notizia, ma diventa testimonianza, a dare visibilità alla ragione per la quale essa può esserlo. Mi piace, allora, immaginare Gianni Minà che cerca se stesso attraverso i personaggi che incontra e intervista, di trasformare il lavoro in un viaggio di vita, la fatica in piacere. Le interviste con Lula, Fidel Castro, Maradona, Cassius Clay, Troisi e la lunghissima serie di incontri, diventano così tante schede della ricerca di vita, testimonianza di esistenze con le loro modalità umane, perché se un personaggio è notizia in sé, motivo di interesse o anche e solo di curiosità, ebbene egli è portatore di una qualità da rendere visibile, percettibile e perfino condivisibile.


Gianni Minà accompagna il personaggio e lo conduce, gli fa da spalla, evita il giudizio confezionato ritenendo che non debba necessariamente passare al suo vaglio, è leggero nel farsi del lavoro e traccia del passaggio, a conclusione, corpo capace di esprimere lo spessore dell’esistere. Così, l’intervista diventa dialogo, un parlare di se stessi in cui il giornalista ascolta l’interlocutore fino a diventarne complice, a introiettare un senso della vita da condividere, da rifiutare o solo da trasmettere. È il modo con cui Gianni Minà ha dato costanza di molte vite e della sua.


Questo metodo, praticato con l’onestà intellettuale che gli è consustanziale, comporta delle conseguenze che, nel caso di personaggi tutt’altro che neutrali come Fidel Castro, Lula, Chavez o di scrittori come Jorge Amado, Edoardo Galeano o García Márquez, può condurre ad una scelta di campo. Ed è appunto quello che egli dice con “Latinoamerica e tutti i Sud del mondo”. La rivista è trimestrale e si avvale della collaborazione di importanti figure della letteratura e dell’intelligencija latinoamericana come Luis Sepúlveda, Frei Betto, Edoardo Galeano, Paco Ignacio Taibo II, Roberto Fernández Retamar e molti altri personaggi. Non mancano i contributi di studiosi italiani e persone di “buona volontà”, come Alex Zanottelli, don Luigi Ciotti, Maurizio Chierici. Con un vero e proprio lavoro di regista, Loredana Macchietti, compagna e moglie di Gianni, provvede a coordinare i molti contributi e a dare continuità alle pubblicazioni.


La storia del sub continente americano si sviluppa nell’atmosfera della cooptazione, di un’esistenza “concessa” e nella corrispondente necessità di affermare una propria singolarità, un’esistenza senza mediazioni. In tale anelo ha svolto un ruolo molto importante la parola scritta, la letteratura e specialmente la narrativa. Negli anni Sessanta del secolo scorso si verifica la felice coincidenza tra il mondo solo apparentemente “magico” di Cent’anni di solitudine e la Rivoluzione cubana, di Che Guevara e Fidel Castro. Credo che il giornalismo di Gianni Minà trovi una giusta collocazione nell’eco di quella fertile aspirazione ad avere una voce.

Hasta siempre, amico generoso.

© Edizioni Archos

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