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Il bianco e l'oro di Giacomo Serpotta

L'arte dello scultore e stuccatore siciliano che predilige la contrapposizione del bianco su bianco e il giallo oro


Oratorio di San Cita, Palermo

Giacomo Serpotta (1656-1732) è un abile e geniale maestro dell’arte scultorea dello stucco a livello europeo. Nasce a Palermo in una famiglia povera, il cui padre finisce presto in carcere. Il canonico Mongitore nei suoi scritti lo elogia brillantemente per le sue opere, fondate sul disegno dal tratto deciso e quasi frenetico, e per la sua considerevole ''dilicatezza'', appellando il Serpotta come un ''insigne stucchiatore''. Di analogo parere è l’abate Gioacchino Di Marzo, il quale nel suo fondamentale saggio, intitolato: ''I Gagini e la scultura in Sicilia'' edito nel 1980, valorizza notevolmente Serpotta e ne riconosce l’indubbio influsso della scuola gaginesca, iniziata con il padre Domenico e proseguita con quella del figlio Antonello. In generale, la tradizione scultorea siciliana annovera oltre ai Gagini, i Li Volsi e naturalmente gli scultori post-gagineschi quali Gaspare Guercio e Carlo D’Aprile.

Vi è quindi una consolidata, ricca e molteplice storia delle arti figurative siciliane, delle quali il Serpotta si nutre. Tuttavia supera questo linguaggio scultoreo che è sì “sonoro ma provinciale”, secondo la capitale riflessione di Giulio Carlo Argan elaborata in “Immagine e persuasione. Saggi sul Barocco”, pubblicato nel 1986. Circa un presunto e giovanile viaggio romano del Serpotta vi è un secolare dibattito tra gli storici ed i critici d’arte che in questa sede è opportuno brevemente ricordare. Coloro che sostengono l’origine regionale dei suoi studi formativi sono Gioacchino Di Marzo, Filippo Meli, Stefano Bottari, Giovanni Carandente, Carlo Ricci, Giulio Carlo Argan, Rudolf Wittkower, Francesco Abbate e Donald Garstang. Diversa è la posizione di Antony Blunt, secondo il quale Serpotta soggiorna probabilmente a Roma. In ogni caso, molteplici sono le sue influenze tanto che, a nostro avviso, si può sostenere con certezza una multiforme e ricca κοινή linguistica e concettuale della scultura in Sicilia con alcuni richiami fanzaghiani.

Oratorio del SS-Rosario di San Domenico, Palermo

Vi sono lievi riferimenti ''iconografici'' michelangioleschi e duquesnoyani secondo la visione di Erwin Panofsky concepita nel suo noto saggio, dal titolo: ''Il significato nelle arti visive'' del 1955. È doveroso domandarsi se Serpotta si reca a Roma per fare un sopralluogo o se conosce queste componenti linguistiche e simboliche grazie alla circolazione indiretta di stampe ed incisioni dell’epoca. In Serpotta hanno un ruolo fondativo la sua vis immaginifica, il suo ludus creativo e la sua eccezionale abilità artistica come emergono nell’emblematica, stupefacente e matura decorazione dell’oratorio del Santissimo Rosario di San Domenico di Palermo (1710-17 circa). Quivi si muove tra il Barocco ed il Rococò, coniugando la celebrazione delle tre Arti Maggiori, ovvero la pittura, la scultura e l’architettura. Grazie alla sua laboriosa τέχνη ed all’uso sapiente e raffinato della contrapposizione del “bianco su bianco” e del giallo oro sembra quasi di poter assistere a vibranti, delicate, vivaci ed a tratti piroettanti plasticità scultoree che si inseriscono perfettamente in uno spazio architettonico. Giacomo Serpotta dà l’impressione di plasmare la ''materia (ΰλη)'' - lo stucco – al quale mescola la polvere di marmo, originando l’''allustrattura'', ossia l’effetto marmoreo.

Oratorio di San Cita, Palermo

Lo stucco è bianco ovvero del ''colore acromatico'', secondo la definizione di Johann Wolfgang von Goethe, concepita nell’opera dal titolo: ''La teoria dei colori'' data alle stampe nel 1810. Secondo i maggiori teorici del colore e pittori quali anche Philipp Otto Runge, Vasilij Kandinsky, Paul Klee, Johannes Itten e Ludwig Wittgenstein il bianco è per eccellenza la cromia peculiare della purezza ed i puttini e le statue sono tutte di un luminosissimo “bianco su bianco”. Ad esso si oppone coloristicamente la predilezione del giallo oro largamente impiegato per gli attributi e per i festoni. Questa cromia suggerisce il senso della ricchezza, della potenza e della grandiosità non soltanto delle sculture ma anche della committenza dell’artista.Nella sua intera e numerosa produttività artistica Serpotta sceglie sovente quest’alternanza coloristica la cui percezione visiva è amplificata, nel senso arnheimiano, non soltanto dalla preferenza di alcuni colori ma, naturalmente, dal gioco luministico, formale, spaziale ed architettonico.

Oratorio del SS-Rosario di San Domenico, Palermo

È utile rammentare il rapporto professionale di Serpotta e dell’abate ed architetto Paolo Amato. Si ha la percezione che Serpotta modelli il materiale e sviluppi probabilmente ''il mistero della sua visibilità sparsa'' nei suoi simboli, secondo la concezione merleau-pontyana. Inoltre, tra puttini intenti a giocare, ad inseguirsi, a nascondersi, ad abbracciarsi e tra figure femminili dagli abiti succinti e dalle pose civettuole e sensuali si riconoscono la Fortitudo e la Patientia. È noto infatti che Serpotta attinge al trattato di Cesare Ripa, intitolato "Iconologia" e pubblicato nel 1618. Si può avanzare l’ipotesi secondo la quale si assiste all’epifania amorosa da una probabile componente sessuale. La Patientia non si apre forse al piccolo cupido - dalla mitologia pagana - che è in procinto di colpirla con l’arco e la freccia?

Ma proprio quest’ultima è di forma fallica. Può darsi che si sta celebrando un amore carnale? Ovunque vi sono figure allungate, e la stessa Iustitita è colta con la spada alzata, che è un palese riferimento al membro maschile. Come è possibile che quest’oratorio, dedicato ai Misteri del Santissimo Rosario, è reinterpretato simbolicamente quale luogo dell’amore, cattolico e profano ad un tempo? Si può proporre la tesi secondo la quale nelle sue opere scultoree riesca a disvelare l’Essere o l’άλήθεια, la verità, secondo la visione heideggeriana. Infatti, la Madonna, i cui misteri misterici si celebrano, altro non è che un travestimento simbolico di Venere, dea dell’amore. E dietro quest’ultima vi è l’archetipo nemmeno molto celato della Grande Madre.


© Edizioni Archos

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