Il Poeta del jazz
- Sandra Maria Dami
- 5 giu 2019
- Tempo di lettura: 3 min
Un libro, una registrazione musicale memorabile, uno dei jazzisti più importanti di ogni tempo, e l’incontro prende forma

Chet Baker
Il libro è “Magari domani resto” di Lorenzo Marone, la registrazione è “My Funny Valentine”, colonna sonora delle sue pagine, e il jazzista è Chet Baker. È una parentesi delicata, lo è ancora di più se quella lettura scompiglia rende urgente la necessità di ascoltare lo stesso brano che la protagonista Luce accende nel romanzo contemporaneo di Marone. Sposto l’attenzione dalle pagine alla musica e appare qualcosa di inaspettato, un mondo - quello del jazz - accarezzato tante volte, e mai approfondito. Un mondo abitato da anime buie e fragili, capaci di una musica inconfondibile. Forse irripetibile. Cosa sia il jazz è intuibile, chi siano stati i timonieri di questo genere musicale viscerale e complesso lo sanno solo i suoi amanti, esperti per passione. Sì, perché il jazz puro non è subito pop e di facile ascolto. È lentezza e sofferenza. Non si confonde. Ha ispirazioni continue e non lascia spazi vuoti. Se non si ama, è insopportabile perché non concede nulla. È proprio del poeta-trombettista jazz Chet Baker l’affermazione che solo il due per cento del pubblico sa veramente ascoltare, intendendo con questo seguire le idee di un solista ed essere capaci di sentirle in relazione agli accordi. Parole nude che escludono ogni interesse verso fama e allori, sottolineando armonia e furore, due manifestazioni apparentemente inconciliabili, che in Chet trovano il loro accordo perfetto e unicità nella performance.

Street of Fame, Burghausen (Germania)
Chet Baker aspirava a quella lentezza quando suonava, fino al punto di arrabbiarsi ferocemente con chi nel gruppo osava velocità nell’esecuzione, e viveva con sofferenza facendo uso costante di droghe. Come un folle metteva la sua vita nella musica con risultati memorabili, ma non viceversa. Entrava e usciva dai carceri con la stessa vibrante facilità con la quale suonava la sua tromba. Espulso da alcuni paesi europei, pestato a sangue da alcuni spacciatori di San Francisco, mascella rotta e denti saltati, ogni volta moriva per rinascere in qualche club fumoso e dalle luci basse, mentre Il suo volto da attore era sempre più incrostato di storie dolorose; non sfugge l’immagine che Enrico Rava, uno dei jazzisti italiani più internazionali, ha restituito di Chet Baker durante uno dei loro ultimi incontri, «Il suo volto bellissimo è ancora lì, nascosto da una fitta rete di rughe, come il volto di un vecchio capo indiano, gli occhi sono stanchi, sono occhi che hanno visto troppo orrore. Ho un attimo di smarrimento, mi sforzo per non piangere. Anche perché Chet non è un vecchio capo indiano. È un giovane uomo di quarantaquattro anni.»

Alla moglie Carol dobbiamo, invece, una delle visioni più affascinanti di Chet riportata nell’introduzione delle memorie perdute scritte di pugno dal musicista, e uscite nel 1997 con il titolo "Come se avessi le ali". Una visione dettata da un ricordo d’amore andato oltre il caos di un’esistenza, «Quanto ai miei ricordi di Chet, mi ci vorrebbe un libro intero per scalfire appena la superficie: come la luce del sole ridisegnava i suoi zigomi pronunciati; la curva ampia e morbida del suo braccio quando reggeva la tromba; come i suoi occhi si facevano intensi e distanti quando suonava. Rapide immagini di lui che tornano su all’improvviso facendomi venire un nodo alla gola.» Immagini che tornano, fermando con un giro di fiato il tempo senza mai risolvere la vita e la musica di Chet, neppure quando in una sera di maggio del 1988 precipita dalla camera di un albergo di Amsterdam, morendo sul colpo. Ciò che non si risolve, però, resta, e può accadere che la sua magia finisca in un libro, in un romanzo semplice, in una Napoli che Chet avrebbe di sicuro amato.
La poesia ha le sue curiose coincidenze. La vita, anche.