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La città che è una donna


La città guardata con una disincantata riflessione sull'universo femminile

Manhattan, New York

“Se Louis aveva ragione e si può avere un solo grande amore, New York poteva essere il mio. E non sopporto che qualcuno parli male del mio amore”. Si chiude così uno degli episodi di una serie televisiva cult, con la protagonista che, su alti tacchi, s’incammina da sola per le vie di New York alla ricerca di un taxi per tornare a casa. Ha appena liquidato e lasciato lì, con un palmo di naso, un uomo che forse le piaceva anche, ma che aveva fatto l’errore di criticare la sua città.

Una città che lei sente così sua da considerarla un grande amore, e prima ancora, da definirla un amante perfetto.

Per chi, al contrario di me, non conoscesse quasi a memoria tutte le puntate delle sei stagioni andate in onda, è il caso di dire che la serie tv in questione è Sex and the City. Se n’è parlato molto, come di un fenomeno di costume che ha sdoganato il sesso in tv (in Italia pensarono addirittura che servisse un talk di approfondimento con sessuologi, terapeuti di coppia e psicologi alla fine di ogni puntata), ha riscattato le donne single tra i 30 e i 40 anni mettendo in imbarazzo gli uomini e ha reso attrici non molto famose delle vere icone contemporanee. Quasi tutte noi abbiamo amato Sex and the City e, sotto vari aspetti, ci siamo identificate nei personaggi femminili, soprattutto in Carrie Bradshaw, la protagonista assoluta, voce narrante della vita, dei rapporti e dell’amore delle donne degli anni 2000 sotto il cielo di New York e ‘penna’ che ne racconta dalle pagine della sua rubrica sul settimanale New York Star.

Non credo che un identificarsi così marcato del pubblico femminile passi, o almeno non solo, dagli abiti meravigliosi, disegnati dai couturier più famosi, dai look inediti e sorprendenti, o dalle innumerevoli scarpe, che tuttavia hanno fatto sì che ognuna di noi desiderasse un paio di Manolo Blahnik. Se fosse perché si parla in modo irriverente, ironico ed esplicito del sesso, e se ne vede anche molto, probabilmente molti più uomini saprebbero di cosa sto parlando. La vera forza di Sex and The City è l’aver fatto uscire, per la prima volta, il racconto di noi donne, fatto di un mix inaspettato di slanci e paure, d’inventiva e concretezza, di dedizione e sano egoismo, dalla dimensione privata, per proiettarlo in quella pubblica.Dallo spazio chiuso, definito e circoscritto della casa, le donne passano agli spazi aperti, fluidi e allargati della città. Se in precedenza la storia, poi la tradizione e infine un certo conformismo ci collocavano, e forse anche ci assimilavano, alla dimensione domestica e familiare, fino a farla diventare il luogo ‘femminile’ per antonomasia, adesso s’impone un significativo ribaltamento di ruolo.

C’è qualcuno che non solo lo svela, ma lo incarna e gli dà voce, seppure in una finzione televisiva. Il palcoscenico del vivere femminile si trasforma. A dargli forma non è più l’ambiente della casa, spazio interno, rappresentato da stanze simbolo, come la cucina o il salotto, dove non a caso quasi tutte le serie tv sono ambientate, ma è la città. Una città ancora architettonicamente a misura di uomo, progettata da uomini per altri uomini (se no forse tutti i parcheggi sarebbero enormi o a spina… naturalmente sto facendo autoironia), che le donne ridisegnano, vestendone di nuovi significati gli elementi distintivi e caratterizzanti. Le donne ne sono le nuove protagoniste, artefici e talvolta anche incauti bersagli (mi riferisco ai tacchi a stiletto sui pavé… gli architetti in ascolto prendano nota) di quegli spazi urbani che, esperienza dopo esperienza, vanno a tratteggiare quella che io chiamo la “topografia interiore” di ognuna noi.

Una configurazione della città che si delinea non più in rapporto alla distribuzione di strade, edifici, piazze e monumenti, ma che si compone, stratifica e muta in rapporto a ciò che in quelle strade, davanti a quegli edifici, attraversando quelle piazze e guardando quei monumenti abbiamo provato, vissuto e capito, di noi e delle nostre relazioni. Ed ecco che Carrie è ciascuna di noi: quando in mezzo alla strada riceve una proposta di matrimonio, quando attraversa tutta la città di corsa per andare ad abbracciare la sua migliore amica, quando dopo un doloroso addio trova consolazione nella bellezza intatta della sua città, quando ritrova se stessa passeggiando a pieni polmoni in Central Park.

Carrie sono io, che passando sotto a quell’albergo non posso fare a meno di alzare lo sguardo e cercare la finestra da cui, una notte, ho guardato la città credendo che quella nuova prospettiva fosse un’anticipazione del futuro. Io che solo dopo lungo tempo sono riuscita a tornare nella città dalla tinta monocroma intinta in tutte le sfumature della creta’ dove ho vissuto tra i 20 e i 30 anni, per il timore di essere sopraffatta dalla nostalgia, non tanto dei luoghi, ma di quella me in quei luoghi.

E so che a ogni arrivo alla stazione Termini di Roma avrò sempre quel tuffo al cuore, così come le grandi tettoie di ferro della stazione Centrale di Milano segneranno per sempre le traiettorie delle mie emozioni sciolte in un abbraccio a lungo atteso. È un incredibile, forte e conturbante transfer, che fa sì che le architetture diventino desiderabili come l’oggetto d’amore, suscitando un desiderio quasi carnale di sfiorarne le superfici per conquistare le pietre, i mattoni, i legni di cui sono fatte. Lo sguardo femminile sulla città è questo, una geografia dell’amore, delle emozioni, del vissuto, intimamente legati ai luoghi, agli edifici e ai paesaggi urbani.

Se la città non deve essere intesa come una mera questione d’architettura, ma come l’insieme di relazioni che l’esperienza urbana è in grado di tessere, e da cui gli stessi spazi traggono arricchimento e caratterizzazione, questo è tanto più vero e potente in ragione di questo complesso legame che le esistenze femminili intrattengono con la città. Non sono una professionista del settore ma credo che la città in chiave femminile non si traduca necessariamente in forme architettoniche accattivanti o sinuose, o ancora, secondo una definizione che io rifiuto con forza, “declinate in rosa”.

Non deve, o almeno non dovrebbe, portare a soluzioni progettuali che si rapportano alla donna come a un soggetto da proteggere e da difendere, perché esse presuppongono che la donna sia nella città, dimensione che convenzionalmente le si vuole aliena, un soggetto ancillare, debole, quasi schiacciato e sopraffatto dal contesto urbano. La nostra percezione della città è invece di una spettatrice e testimone, ma anche di una complice, di un’amica e custode del nostro intimo sentire.

E, come tale, la vorremmo che dona, ricorda e accoglie. Inclusiva, attenta, creativa.

Questa è una città che è donna.

Articolo pubblicato su ArtApp 15 | LA DONNA



© Edizioni Archos

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