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La città variabile di Michelucci


L'incontro dell'autore con l'architetto e docente Giovanni Michelucci

Studio per il monumento a Michelangelo sulle Apuane, 1972

Ci sono incontri nella vita delle persone che lasciano indelebilmente un segno. Personalmente ho avuto la fortuna di viverne diversi e tra questi ce n’è uno, senza dover recuperare una delle vecchie agende che ancora conservo, che ne ricordo ancora la data: 27 marzo 1990.

Quel giorno la Facoltà di Architettura di Firenze riapriva “ufficialmente” le lezioni dopo mesi di occupazione del Movimento studentesco della “Pantera”. A presenziare alla simbolica inaugurazione (ritardata) dell’anno accademico, gli studenti vollero la personalità forse più importante che la Toscana, architettonicamente parlando, abbia avuto nell’ultimo secolo: Giovanni Michelucci.

All’epoca non si parlava ancora di archistar eppure quel giorno la Facoltà fiorentina si ritrovò gremita come mai si era vista; non solo l’Aula Magna, ma anche i corridoi, pieni fino al soffocamento; e altre due aule stracolme di studenti che seguivano l’incontro tramite collegamento video. Michelucci aveva 99 anni, ma davanti a noi non ci trovammo un anziano signore, se non nelle apparenze fisiche, bensì un lucido e giovanissimo spirito che trasmetteva vita e amore da quegli attenti occhi chiari. Accompagnando le parole con eleganti movimenti delle sue grandi e asciutte mani, - nonostante l’età- senza mai citare nessuna delle sue innumerevoli opere.

Mi accorsi solo a sera, rientrando a casa, che Michelucci non aveva mai parlato direttamente di Architettura, ma allo stesso tempo non aveva fatto altro che toccare argomenti, apparentemente effimeri, per condurci in quella magica disciplina che non possiamo scindere da una qualsiasi azione del nostro vivere: da ciò che i nostri occhi vedono camminando ogni giorno per la strada; dagli incontri che facciamo; dagli odori e dai sapori che incameriamo; dai desideri che abbiamo così come dai sogni. Come quello che raccontò quella mattina stessa: "Ho sognato una capanna in un bosco con la porta a bocca di lupo. Una capanna povera, provvisoria, il cui aspetto evocava l’infanzia, i ricordi ancestrali, gli odori e gli umori del muschio, del pane appena cotto, del formaggio. Ricordi di una realtà irrecuperabile se non nel sogno.

Tanto è vero che, avvicinandomi alla capanna, invece di ingrandirsi, rimpiccioliva sempre più. Un luogo talmente piccolo da considerarsi inabitabile. Ma d’un tratto ho intravisto all’interno l’ala di un angelo: una presenza angelica. E nessun luogo è povero o di poco conto se abitato da un angelo!

Mi è parso di comprendere visivamente una realtà elementare eppure ricca di implicazioni: che non sono i luoghi che devono cambiare, ma le persone che li abitano. Uno spazio è sempre povero quando è privo di capacità di relazioni, ed è sempre bello quando è generativo di incontri, di possibilità sinora inesplorate.

Questa, forse, è la felicità dell’architetto."

Progetto per un centro sportivo a Prato, 1980

A più di 20 anni dalla scomparsa il suo insegnamento è sempre attuale. Michelucci non ha mai inteso le sue architetture come un fatto isolato e implosivo legato ad un linguaggio formale.

Al contrario ha sempre considerato ogni avventura progettuale come un’occasione per disegnare un elemento della città, in una visione dell’architettura consapevole del suo ruolo sociale.

E l’ha fatto ponendo sempre al centro le persone e i bisogni dei cittadini.

La “città variabile”, da lui così intesa in quanto essa rappresenta l'aspetto storico della città nuova, perciò variabile nel tempo, è per Michelucci architettura a scala urbana, che nasce dalla vita e dall'osservazione del quotidiano; non misurabile in rapporti amministrativi o di standard, ma come unità organica in cui tutti gli elementi vanno inseriti in un vero e proprio sistema di relazioni. Per questo l’architetto pistoiese ha sempre posto alla base del progetto lo spazio e l’uomo, in quanto lo spazio architettonico riveste funzione psicologica di una realtà variabile che si adatta alle esigenze individuali e collettive e che muta col mutare di queste.

La concezione dello spazio come storia in continuo mutamento, non si può evidentemente tradurre in Michelucci in una ricerca formale, ma quanto nella ricerca di uno spazio attuale che è diverso sempre nelle incessanti esigenze in movimento degli abitanti della città.

Che si risolve certo attraverso una forma, ma una “forma in espansione”, come testimoniano i suoi innumerevoli disegni densi di matasse di linee, che nel laborioso processo grafico trascrivono meglio di ogni parola la necessità – quasi impellenza - di mettere in relazione le ricche tematiche sociali all’interno di un progetto organico. È anche per questo che ogni edificio di Michelucci non ha mai unicamente la funzione per la quale è stata commissionata la sua realizzazione, ma amplia le sue possibilità di connessioni e funzioni: una banca allora può diventare piazza, una chiesa essere un teatro, una stazione una strada.

Architetture che vanno così a costituire una vera e propria realtà urbana, fisica e di relazioni. La città variabile di Michelucci, in questo senso, è un approccio alla progettazione che non andrà mai fuori moda, perché vive e partecipa dei modi e dei comportamenti di usare lo spazio da parte delle persone, che sono in continua trasformazione: lo spazio che parla e che diviene proiezione delle attività umane, fornendo spunti ed elementi sempre nuovi alla progettazione. D’altronde il Genius Loci per Michelucci non è mai stato un concetto statico, bensì un’idea dinamica in perenne divenire.

Ricordo le sue parole quando ci esortava a prestare attenzione alle “possibilità” che nascono sempre dall’incontro di qualcosa, tra noi e un oggetto ad esempio, o con un animale, un albero, una finestra che si apre al paesaggio; alle possibilità che nascono dall’incontro e dallo scambio con un’altra persona. E quando chiedeva, a noi giovani studenti, come immaginassimo la città, come avremmo progettato ad esempio un mercato, lui, con quell’aria sorniona e divertita, raccontava: «Io ho cominciato, tanti anni fa, a riconoscere il giorno del mercato dall'odore del vergatino. Il vergatino è una stoffa che è profumata. E sentivo questo giorno, che cominciava così: si passava per le bancarelle, si facevano dei commenti, si dicevano cose più o meno utili.

Disegno per "Radici delle città", 1985

Arrivati a questa età, non l'età nostra, l'età della vita, abbiamo il compito… avete il compito, voi che sarete futuri architetti, di creare la città; una città che porti il mercato a esprimersi in tutte le sue possibilità, cioè che riveli quello che è il vero concetto dello scambio, ossia l'incontro, il contatto di persone che non si contentano di comprare oggetti e portarli a casa.»

Progettare il mercato partendo dall’odore del vergatino, prima ancora di mettersi a disegnare rettangoli o griglie, a tracciare linee bidimensionali o volumi, destreggiarsi tra rapporti e superfici. Ho sempre pensato che una città e le sue architetture dovrebbero essere pensate così.

Articolo pubblicato su ArtApp 14 | LA CITTÀ

 

Chi è | Marco Del Francia

Architetto e Presidente dell’Associazione BACO (Baratti Architettura e Arte Contemporanea) – Archivio Vittorio Giorgini, coordinatore redazionale della collana “Architetture delle Province”, dal 2014 nel CTSO di AAA/Italia (Associazione nazionale Archivi di Architettura contemporanea). Ideatore e progettista del Museo MAGMA di Follonica (vincitore del DASA - Micheletti Award 2015 e del Premio Business Meets-Art Awards 2014), cura allestimenti museali e mostre temporanee.

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© Edizioni Archos

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