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L’utopia del capitalismo

Di questo tema esiste una interessante narrazione nel "Lehman Trilogy", una straordinaria opera teatrale di Stefano Massini

Il cast di "Lehman Trilogy": Massimo Popolizio, Fabrizio Gifuni, Paolo Pierobon, Fausto Cabra e Massimo De Francovich | Piccolo Teatro, Milano 2015


È difficile che oggi qualcuno rifletta sul significato della parola capitalismo. All’inizio del XXI secolo tale modalità di funzionamento dell’economia, e, di conseguenza, della società nel suo insieme, è ritenuta del tutto naturale dalla quasi totalità del mondo occidentale. In realtà, il capitalismo è un fenomeno storico e, come tale, non nasce con l’uomo, ma ha un inizio (che in modo approssimativo potremmo situare alla fine del XVIII secolo, con la Rivoluzione Industriale) una sua esistenza e prima o poi sarà superato da nuove forme di regolamentazione economica che l’uomo riterrà più confacenti alle proprie necessità materiali e, in seconda istanza, morali. Semplificando all’estremo, il capitalismo basa il suo funzionamento sulla proprietà privata dei mezzi di produzione: i capitali (da cui il nome), le strutture, i macchinari e, in un certo senso, gli attori stessi della produzione, gli uomini.


Questi ultimi, infatti, non vengono retribuiti secondo la ricchezza da loro effettivamente prodotta, bensì in base a una somma di denaro più o meno fissa che siamo soliti definire “salario”. Esiste una dimensione utopica nel capitalismo? Si tratta di un quesito cui è possibile tentare di fornire una risposta leggendo "Lehman Trilogy", una straordinaria opera teatrale di Stefano Massini (Einaudi, Torino 2014). Divisa in tre atti, "Lehman Trilogy" narra la vicenda della famiglia Lehmann, dall’arrivo del suo capostipite Heyum a New York nel settembre 1844 al crollo dell’impero economico creato nel corso di oltre un secolo e mezzo di storia e verificatosi nel 2008. Heyum Lehmann e due suoi fratelli si spostano uno alla volta da Rimpar, in Baviera, per stabilirsi a Montgomery, in Alabama, in cerca di un futuro prospero. Lo trovano, anzi – per meglio dire – lo costruiscono a prezzo di sacrifici: da un piccolo negozio con la maniglia della porta malfunzionante arrivano a dare vita alla più grande banca d’affari degli Usa.


Dalla lettura di "Lehman Trilogy" (nonché da quella della sua versione estesa, "Qualcosa sui Lehman", Mondadori, Milano 2016) emergono alcuni elementi caratterizzanti il capitalismo: esso è innanzitutto un’utopia individualista. Il capitalismo non ha una dimensione sociale. Il suo obiettivo è liberare le capacità dei singoli uomini, dall’autodeterminazione dei quali non possono che scaturire conseguenze positive. Non a caso, questa teoria prevede che la felicità morale e materiale sia la risultante della somma del dispiegarsi delle doti individuali. Un’altra peculiarità del capitalismo è l’omologazione da esso imposta ai suoi attori. Appena giunti negli Usa ai Lehmann viene tolta l’ultima “n” del cognome e anche i nomi di battesimo di due su tre fratelli vengono americanizzati: Heyum diventa Henry, Mendel diventa Emanuel e solo Mayer resta tale.


"Lehman Trilogy", regia di Luca Ronconi | Piccolo Teatro, Milano 2015


Il capitalismo plasma nel profondo e quel che in esso conta non è la dimensione tradizionale, bensì la capacità di generare ricchezza per sé e, a cascata, per il prossimo. Il capitalismo non possiede passato, ha solo futuro. Tutto ciò è confermato dal fatto che Mendel ed Emanuel (non Henry, che muore in giovane età) riescono a comprendere e padroneggiare le dinamiche del mondo economico fin quando non arriva la vecchiaia, poi devono lasciare il posto ad altri. Lo stesso vale per i loro figli e per chi gestirà le attività del gruppo Lehman dopo di essi. Il capitalismo si dirige sempre e comunque nella direzione del guadagno e, per effettuare detto viaggio, non serve tenere a mente il punto di partenza: al contrario, esso può rivelarsi un impiccio. Tra le radici e il profitto, il capitalismo sceglie sempre quest’ultimo, tanto è vero che l’ebraismo dei Lehman negli anni si stinge fino a diventare elemento di facciata e poco più.


Il profitto può risiedere ovunque, anche in ambiti eticamente disdicevoli. I Lehman non esitano a finanziare la costruzione della bomba atomica, la partecipazione alle guerre, la bolla speculativa degli anni Venti del Novecento e quella di questo inizio di XXI secolo che sarà la causa del loro crac. I soldi non hanno odore. Chi muove obiezioni a questo principio finisce inesorabilmente con l’essere accantonato. Max Weber ha evidenziato che il valore basilare del capitalismo è il lavoro. In teoria, il ceto, il luogo di origine e le appartenenze politico-religiose non dovrebbero incidere in alcun modo nelle possibilità di ascesa sociale. Sacrificio, applicazione e talento sono gli elementi discriminanti per diventare dei buoni borghesi. Si tratta di un aspetto di straordinario interesse. Nella società di Ancien regime vigevano regole di assoluta preclusione per chi non era nobile o appartenente al clero e il concetto di mobilità sociale era pressoché inammissibile. A ciò si aggiunga che chi aveva sangue blu e il mondo ecclesiastico vedevano nel lavoro materiale rispettivamente un qualcosa di deteriore e una conseguenza del peccato originale. Si tratta di una questione che ci consente di ritornare all’utopia del capitalismo, il cui paradigma valoriale ha determinato la progressiva erosione e l’implosione della società dei tre ordini.



Rispetto a ciò che lo ha preceduto, il capitalismo è stato dunque sovversivo poiché ha consentito agli ideali della borghesia di egemonizzare il mondo e di renderlo infinitamente più democratico. L’avverbio “infinitamente” non significa tuttavia “perfettamente”. Il capitalismo non si è mai preoccupato di abbattere tutte le gerarchie sociali, ma ha invece imposto la sua. A ciò è connesso un ulteriore aspetto: nella sua ormai lunga storia, il capitalismo ha dimostrato di saper mutare le sue dinamiche per rispondere alle fasi basse della sua ciclicità e alle crisi. Anche questo ci è mostrato in "Lehman Trilogy": i Lehman sanno adattarsi a ogni evento, anche il più funesto (dagli incendi delle piantagioni di cotone alla crisi del 1929), rovesciandolo in una nuova occasione di arricchimento. Intimamente diseguale e proteiforme, secondo vari osservatori il capitalismo starebbe vivendo oggi la fase che lo sta portando alla decadenza definitiva. In realtà, ad avviso di chi scrive, bisognerebbe evitare di confondere le speranze (per quanto legittime) con l’analisi storica.


L’unica alternativa a esso prospettata, il comunismo di impronta marxiana, per molti motivi non ha trovato un’attuabilità pratica e gode ora di pessima salute. Venendo meno ogni possibilità di una palingenesi del sistema, il capitalismo ha la piena possibilità di dipanare le sue forze sia nel bene che nel male. La globalizzazione, di cui tanto si parla, è possibile per la straordinaria forza di cui gode il capitalismo. Lo stesso dicasi per i processi ad essa collegati, dalla delocalizzazione produttiva alla sempre più marcata finanziarizzazione dell’economia passando per le nuove forme di schiavitù. Oggi il capitalismo è talmente forte che non deve nemmeno più preoccuparsi di riscuotere il consenso delle persone che governa. In nome del suo diritto a ricavare tassi di profitto sempre più alti, esso sposta denaro come pedine su una scacchiera, senza regole né scrupoli (e lo dimostra un’altra acutissima opera teatrale di Stefano Massini, "7 minuti. Consiglio di fabbrica", Einaudi, 2015). Di tutto questo non c’è da stupirsi. Non necessariamente il concetto di utopia si accompagna a quello di giustizia. Il capitalismo sta lì a dimostrarlo.






© Edizioni Archos

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