Per una critica dell’Arte Concettuale
- Saverio Luzzi
- 17 mar
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 27 mar
Dalla seconda metà degli anni ‘60 del Novecento si è iniziato a parlare di Arte Concettuale, un processo creativo in cui la progettazione – meglio: la concettualizzazione – dell’opera è più importante della sua realizzazione

Joseph Kosuth, Una e tre sedie, 1965, MoMA Museum fo Modern Art, New York City
Nel suo L’arte contemporanea (Il Mulino 2012) Angela Vettese ha scritto: “È difficile definire un settore che può essere un campo per la speculazione finanziaria così come per la speculazione filosofica”. L’arte contemporanea è molte, forse troppe cose: questo è il suo fascino e il suo limite. Dalla seconda metà degli anni Sessanta del Novecento si è iniziato a parlare di Arte Concettuale, vale a dire di un processo creativo in cui la progettazione – meglio: la concettualizzazione – dell’opera è più importante della sua realizzazione. Il manufatto è così diventato secondario rispetto all’idea. Non a caso, Joseph Kosuth affermava: “L’arte esiste solo per sé stessa. L’arte è la definizione dell’arte”.
Così, un requisito essenziale dell’arte – la sua dimensione tangibile – per alcuni è diventato marginale, se non addirittura un orpello o un ostacolo. Per non pochi esponenti del mondo concettuale, il passaggio dall’ideazione alla realizzazione dell’opera ha significato la reificazione marxiana dell’arte, la sua Verdinglichung: mercificazione suprema della creatività e suo svilimento.
Ciò che si è voluto scacciare dalla porta è però rientrato dalla finestra. Questo per vari motivi, alcuni nobili e altri spicci: un’idea o un progetto sono ben più difficili da quotare e da vendere rispetto a un prodotto finito. Divenuto secondario, ma non inessenziale, l’atto realizzativo ha potuto essere appaltato a persone diverse da quella che firma l’opera. In non pochi casi la creazione dunque esiste e ha due genitori: uno concettuale che idealmente la ripudia e uno materiale che l’ha resa percepibile ai nostri sensi. Se il primo è disconoscente, il secondo è disconosciuto: di lui non si parla. Non gli è nemmeno riconosciuto lo status di artista, ma, al massimo, quello di artigiano. Con buona pace di Antonio Gramsci, homo sapiens e homo faber sono stati separati.
È ovvio: l’arte non è solo azione. È probabile che oggi al mondo ci siano varie persone capaci di copiare in modo perfetto la caravaggesca “Crocifissione di San Pietro” senza che l’uomo della strada sappia cogliere la differenza tra riproduzione e originale. Malgrado sia incontestabile che dipinga molto bene, nessuno di tali plagiatori può tuttavia sentirsi un vero artista. Caravaggio, che artista invece è, non ha solo dipinto il quadro, ma l’ha innanzitutto pensato, interiorizzato ed elaborato. L’arte, dunque, è concetto: su questo nulla c’è da obiettare a Joseph Beuys e a tanti altri.
L’arte, però, non è solo concetto. Essa per forza di cose è anche materialità, talento esecutivo e manualità. Ridotta alla mera dimensione progettuale, l’arte può diventare autoreferenziale, pretestuosa e sterile. A tal proposito, appare doveroso rimuovere dalla nostra mente l’idea che l’arte sia democratica. Senza cadere in stolidi eccessi neoromantici, l’arte è frutto di chi possiede delle capacità che non sono né possono essere comuni. Solo il giudizio sull’opera è universale e democratico, mentre la creazione e la realizzazione sono elitari.
L’equazione “arte = concetto” si rivela riduzionista poiché svalorizza sia il lato manuale dell’artista (cosa in sé lapalissiana) che quello intellettuale, in quanto può portarci a pensare che qualsiasi intuizione sia degna in automatico di essere considerata arte. Questo è tanto più vero in un’epoca – la nostra – in cui la rete ci consente di sfogare un’urgenza espressiva quasi famelica, troppo spesso sganciata da contenuti e preparazione intellettuale.
Anche se nessun serio artista concettuale ha mai pensato che l’arte sia concepibile tanto dai capaci quanto dagli incapaci, il rischio della semplificazione resta, specie se si considera che il mercato dell’arte è un business dietro cui si celano speculazioni non commendevoli (di cui ad esempio parla Tommaso Labranca in Vraghinaroda, Ventizeronovanta 2015). Al mercato dell’arte può non interessare l’ambito manuale della creazione. Poco conta chi produce la merce-arte, molto invece è considerato chi la pensa e la griffa: sì, perché come gli archistar esistono anche gli artistar, con tutto ciò che di negativo consegue. Non solo: poiché siamo nella società dello spettacolo, la vita e la gloria degli artistar dipendono da fan e follower, i quali – immersi nel brodo di un dibattito sempre più accelerato e drogato – più che di riflessioni approfondite hanno bisogno di provocazioni da consumare qui e ora.
La riduzione dell’arte a provocazione è il suo isterilimento. Per essere chiari, il gesto sedicente concettuale (o neo-concettuale) di fissare una banana a un muro con un pezzo di nastro adesivo non è, come motivato, lo sberleffo verso i meccanismi che regolano il mondo dell’arte e fanno del suo fruitore un servo sciocco e inebetito del sistema. Esso stesso è purtroppo un contributo alla lobotomia di chi davanti a quel frutto si ferma e, grazie al suo stop, rende famoso e abbiente il padre dell’opera senza ricavarne in cambio una vera crescita intellettuale.
Padre di tale creazione, intitolata Comedian, è Maurizio Cattelan, lo stesso che ha fatto materialmente realizzare varie statue che portano la sua firma allo scultore francese Daniel Druet. Quest’ultimo ha fatto ricorso in Tribunale chiedendo che fosse riconosciuta a lui soltanto la paternità delle opere in questione, ma nella primavera del 2024 la magistratura gli ha dato torto, credo sensatamente. Tuttavia, se queste statue non possono essere ritenute opera del solo Druet, perché devono essere considerate frutto unicamente di Cattelan? L’arte che voleva abbattere la Verdinglichung non finisce per creare grazie a vicende come quella di Druet (genitore materiale) e Cattelan (genitore concettuale) una divisione di ceto e di legittimità tra braccio e mente? Non finisce per riprodurre quelle dinamiche di reificazione che si è prefissa di contrastare?
Non si tratta di muovere accuse al solo Cattelan, uomo peraltro capace e intelligente. Come lui, Sol LeWitt, Alighiero Boetti e tanti altri artisti concettuali hanno firmato manufatti la cui realizzazione è stata programmaticamente affidata ad altri. Ci sono però questioni generali e inaggirabili: l’estremizzazione dell’idea di arte concettuale non comporta il rischio della riduzione dell’artista a mero proprietario dell’opera? Accantonare l’arte agita a favore di quella solo pensata non favorisce la prostrazione (a volte ben retribuita) dell’intellettuale al mercato?