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Quando la Via della Seta diventa tela. Bukhara e l’arte del dialogo

Nel cuore dell’Asia centrale, la città di Bukhara inaugura una biennale che intreccia arte contemporanea, artigianato e rigenerazione urbana: un laboratorio di identità e memoria che riporta la Via della Seta al centro del discorso culturale globale.


L'installazione di Marina Perez Simão (Brasile), in collaborazione con l'artista uzbeco Bakhtiyar Babamuradov
L'installazione di Marina Perez Simão (Brasile), in collaborazione con l'artista uzbeco Bakhtiyar Babamuradov

In una città dove ogni cortile sembra custodire una storia e ogni cupola riflette una luce antica, la prima Biennale di Bukhara ha preso forma come un gesto di riappropriazione culturale. Dal 5 settembre al 23 novembre 2025, l’antica città uzbeka trasforma le sue madrase, i caravanserragli, le moschee e i vicoli polverosi in un racconto contemporaneo che riparte dal luogo, dalle mani degli artigiani e dalla memoria stratificata di secoli di scambi e attraversamenti. La Via della Seta, che per secoli ha legato mondi lontani, torna ad essere il filo che unisce artisti internazionali e saperi locali, tessendo una trama di opere site-specific realizzate interamente in Uzbekistan grazie a una collaborazione stretta fra creativi e maestranze.


Il tema scelto — “Recipes for Broken Hearts” — prende ispirazione da una leggenda locale: si racconta che il grande medico e filosofo Ibn Sina avesse ideato un piatto di riso per lenire il dolore di un cuore infranto. È una storia semplice, quasi domestica, che trasforma la cura in rito, l’alimentazione in gesto poetico, la materia in simbolo. Questo immaginario continua a vivere nelle installazioni disseminate nella città, dove il lavoro manuale e il pensiero artistico si ricongiungono. Ogni opera nasce infatti dall’incontro fra un artista e un artigiano del luogo, quasi a sottolineare che la creazione non è mai un atto isolato, ma il risultato di una relazione.


Biennale di Bukhara - 2025
Biennale di Bukhara - 2025

Dentro questo scenario così denso di memoria, l’arte contemporanea non appare come un corpo estraneo. Al contrario, è come se le forme del presente si fossero lasciate guidare dalla storia.

L’installazione di Antony Gormley, costruita in adobe insieme al maestro Temur Jumaev all’interno di una madrasa, sembra emergere dalla terra stessa, come un gesto di contemplazione che riflette il rapporto fra corpo e spazio. L’opera di Subodh Gupta, nata dalla collaborazione con l’artigiano Baxtiyor Nazirov, trasforma stoviglie quotidiane in metafore dell’incontro, come se la tavola — luogo universale della condivisione — diventasse un ponte tra tradizioni lontane. Altri artisti dialogano con tessiture monumentali, fibre, colori naturali, portando il sapere ikat e le trame tradizionali dentro forme che parlano un linguaggio internazionale.


Entrare nei luoghi della Biennale significa anche osservare una città che si sta rigenerando. La manifestazione è infatti parte di un progetto urbano più ampio, che coinvolge restauri, percorsi pedonali, riaperture di spazi antichi e una riflessione sul ruolo dell’architettura nella vita quotidiana. L’allestimento non si impone, non cancella, non sostituisce: amplifica le qualità del contesto, facendo emergere lo spazio come vero protagonista del racconto. È qui che, da designer, si percepisce un altro livello di lettura. Le superfici di argilla, i colori minerali, le geometrie islamiche e la luce tagliente dell’Asia centrale diventano parte della grammatica visiva della Biennale. La sua identità grafica sembra già scritta nei mattoni della città, nei tessuti esposti nei bazar, nelle ceramiche lavorate a mano.


Nomin Zezegmaa. ᠣᠩᠭᠤᠳ (Ongod), 2025. In collaborazione con Margilan Crafts Development Centre. Foto © Felix Odell.
Nomin Zezegmaa. ᠣᠩᠭᠤᠳ (Ongod), 2025. In collaborazione con Margilan Crafts Development Centre. Foto © Felix Odell.

La forza di questa Biennale sta proprio nella capacità di far convivere il passato con il presente senza nostalgie. Non cerca la spettacolarità, non rincorre il gesto iconico, ma costruisce un ecosistema di relazioni. L’arte non è un oggetto da osservare, ma un ponte verso un modo diverso di abitare la città e di ascoltare chi la vive. Anche il tema della cura, che attraversa tutte le opere, restituisce una riflessione preziosa: la cultura può avere una funzione riparativa, può lenire le fratture, può rammendare il tessuto sociale così come l’artigiano rammenda un tappeto antico.


Alla fine del percorso, ciò che resta non è solo la bellezza delle opere o la ricchezza del patrimonio architettonico di Bukhara, ma l’idea che l’arte, quando si radica nella vita delle persone, diventa una forma di progettazione del futuro. La Biennale di Bukhara non è soltanto un’esposizione: è un modello, un laboratorio di identità, un luogo dove l’incontro fra linguaggi diversi si fa possibilità. È la dimostrazione che anche nel mondo iperconnesso di oggi la Via della Seta può ancora parlare, se qualcuno è disposto a mettersi in ascolto.staticità della forma, ma nella capacità di muoversi insieme ai corpi e alle storie che ospita. Notre-Dame lo conferma: anche nel sacro, a volte, il rinnovamento comincia proprio da dove ci si siede.

© Edizioni Archos

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