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Il marrone è un colore lento

Derek Jarman è l'autore di CHROMA, un percorso umanistico che sottolinea la natura plastica dell’arte

"Notes on the Dark Side of the Moon" Maria Cristina Galli, 2019

Povero umile marrone. Calpestato dal rosso. Vola nelle braccia del giallo. Confonde i teorici. Risalta per la sua assenza nei libri sui colori. Per il marrone non esiste alcuna lunghezza d’onda monocromatica…Il marrone è composto dal nero e da qualsiasi altro colore […] L’odore della terra umida, ricco, persistente, ammaliante. Il marrone è un colore lento. Prende il suo tempo. È il colore dell’inverno. Ma anche il colore della speranza, in quanto sappiamo che non resterà sepolto per sempre nella neve ghiacciata.

Derek Jarman, CHROMA


Derek Jarman, autore di "Blue", il suo film più emblematico, opera d’arte magnetica e assoluta, scrive una personalissima Teoria dei colori in uno dei momenti più drammatici della sua vita, mentre, malato di AIDS, sta perdendo la vista. Ricorda di essere stato pittore, allievo della Royal Academy di Londra, prima di diventare uno dei registi e cineasti più noti e significativi del panorama anglosassone. CHROMA ripercorre una passione del colore che riemerge nel ricordo e nel vissuto, quasi fosse una traccia, più che una presenza; quasi celebrando un’appartenenza emotiva più che oggettiva, che si fa paradosso e manifesto di una distanza da ciò che non sarà più. Del colore è difficile scrivere, perché è costituito da una lunghezza d’onda che possono percepire solo i nostri sensi e che spesso è intraducibile in parole. Perché ha gamme che la teoria ha cercato di catalogare, ma spesso è negli interstizi di quei codici che colori inattesi ci toccano nel profondo, e diventano indimenticabili.


Come il flusso delle onde del mare, la scia di un sasso che rimbalza sulla superficie piana di un lago, il profumo della pioggia, il suono del silenzio, la danza di una fiamma nel camino, il colore di un tramonto resta in noi senza restare. Pura effusione di luce, non marca il suo passaggio, si consuma senza resistenza, senza lasciare impronte. Per rievocarlo, occorre appellarsi al ricordo, al sapere della memoria, che informa la nostra mente di quanto è passato attraverso gli occhi e poi in tutto il corpo e che ci ha lasciati senza respiro. Conoscere, quindi, e ri-conoscere, implica il sentire. I colori di Jarman sono i colori di una vita. Episodi, aneddoti, fantasie e riflessioni dolci-amare, citazioni e immagini che ne sono l’esperienza, sono siglati ciascuno da un colore specifico, che racconta il modo in cui sono stati esperiti.


"CHOMA - Diario tassonomico in bianco", Maria Cristina Galli, 2019


CHROMA diventa, pagina dopo pagina, più che un trattato, un percorso umanistico che sottolinea la natura plastica dell’arte, che evidenzia la sua indole a produrre contaminazioni e attraversamenti inediti, a compiere passi che ridefiniscano e mettano in risalto la qualità del movimento. "Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta." (Walter Benjamin, Infanzia berlinese). Si potrebbe aggiungere che occorre una certa arte per smarrirsi, e poter osservare con occhi nuovi il panorama del mondo che ci si apre innanzi. Per ritrovare la strada, occorre perderla. Per compiere un passo in avanti, bisogna perdere l’equilibrio almeno per un istante. È la legge della ricerca. Come un “veggente che predice il futuro”, l’artista a tratti brancola nel buio, avanza senza conoscere esattamente il traguardo, laddove non vede tocca.


O meglio, utilizza i sensi tutti, li dilata e li informa di peculiarità impreviste per tracciare aperture e brecce oltre la superficie del visibile. Affinché il lavoro dell’arte possa rilanciarsi, occorre diventare ciechi per un attimo per imparare, ancora una volta, a leggere con uno sguardo altro. L’immagine non è mai scontata, arriva come un ospite inatteso sulla soglia del pensiero. Inventa le proprie coordinate e si sviluppa tracciando i propri assi, sa diventare sintomo trasversale del territorio dei sensi e vettore perforante e perturbante di senso. Il suo movimento (motus ha la stessa radice di emozione) è critico, e non necessariamente ha a che fare semplicemente con il visibile. È l’essere che c’è, in senso proprio, come direbbe Derrida «un resto che resta al di là di tutto ciò che è», che rende possibile il dire. Il sapere dell’immagine non si sofferma sulla sua scrittura, né sui suoi segni o i suoi colori. Volge piuttosto il suo sguardo verso l’interno, verso un segreto che resta impronunciabile e che risiede in un vedere per non vedere, nella contemplazione della memoria sensibile, nell’immaginazione visionaria.


"Notes on the Dark Side of the Moon" Maria Cristina Galli, 2019

"Egli conosce soltanto la differenza tra il vedere, come cieco vedere, per cui tutto è una realtà priva di trasparenza, e il verace vedere, per cui tutto il sensibile diviene spirituale, come se l’invisibile fosse la realtà." (Karl Jaspers, Leonardo filosofo). Laddove si attiva un’arte della cecità, ci viene in soccorso la parola, e lo sguardo delle cose su di noi. Il profumo della terra, la lentezza dell’inverno e la prospettiva della speranza, il colore si declina sui ritmi della natura e della vita, ci restituisce a una realtà non pienamente decifrata, che respira il proprio tempo. Quello giusto, quello della semina. Il tempo della concentrazione, il tempo dell’intenzione, il tempo dell’affiorare del mistero della materia e della forma, che nessuno conosce ma che il seme “sa” e che, lui solo, saprà inventare.





© Edizioni Archos

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