Architettura fallimentare: quando il progetto si trasforma in zavorra
- Cristian Carrara

- 25 lug
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 28 lug
Il fallimento architettonico nasce quando il progetto dimentica il tempo, ignora il contesto e non prevede l’uso reale. Quando la forma non regge la durata, l’architettura smette di costruire e comincia a pesare

C’è un lato oscuro nell’architettura, spesso poco affrontato nei dibattiti pubblici e accademici, che riguarda non tanto l’estetica o la funzionalità immediata di un edificio, ma la sua capacità – o incapacità – di sostenersi nel tempo. È l’architettura che, per scelte progettuali sbagliate, soluzioni tecniche improvvisate o visioni troppo spinte senza adeguati strumenti di controllo, finisce per fallire. Non solo dal punto di vista economico, ma anche sociale. E in questi casi, a fallire non è solo il progetto: è il luogo stesso a esserne colpito, talvolta irrimediabilmente.
Parlare di architettura fallimentare significa dunque interrogarsi su cosa possa portare un edificio – nato magari con le migliori intenzioni – a diventare un peso per il contesto che lo ospita. È una riflessione che unisce economia e clima, governance e uso collettivo, visione e manutenzione. Un dialogo tra presente e futuro che, se interrotto, può far sì che un’architettura anziché costruire, comprometta.
Nel cuore della pianura bergamasca, a Verdello, nel 1992 apriva i battenti il centro commerciale “La Francesca”. In un’epoca in cui il concetto di riuso architettonico non aveva ancora trovato spazio nel dibattito italiano, il progetto si presentava come un’operazione innovativa, per certi versi pionieristica: riunire capannoni industriali esistenti, edificati tra gli anni ’50 e ’60, sotto un nuovo involucro comune, trasformandoli in uno spazio destinato al commercio, al passeggio, all’incontro.

Al centro del progetto – letteralmente e simbolicamente – venne collocata una grande cupola in plexiglass: una copertura leggera e traslucida, pensata come elemento identitario e attrattivo, capace di unificare le testate dei capannoni esistenti e generare una galleria commerciale interna a doppia altezza. L’intento era ambizioso: creare uno spazio luminoso e protetto che evocasse le hall dei mall americani o i passaggi coperti europei. Ma ciò che appariva come una trovata innovativa e scenografica si rivelò presto un errore fatale.
La grande copertura in plexiglass, apparentemente innovativa, venne realizzata senza un’adeguata riflessione sul comportamento termoigrometrico dell’involucro. In una zona caratterizzata da estati torride e inverni rigidi come la bassa pianura bergamasca, il plexiglass si comporta come una lente: amplifica il calore in estate, non isola dal freddo in inverno, e ha un'inerzia termica pressoché nulla. Il risultato fu uno spazio inospitale nei periodi di massimo utilizzo, con ambienti interni che d’estate diventavano vere e proprie serre, e d’inverno difficili da riscaldare. Nel tempo, i costi energetici esplosero fino a superare il milione di euro annui, una cifra insostenibile per il volume d’affari delle attività insediate. La cupola, nata per attrarre e caratterizzare, finì per allontanare: scoraggiò gli operatori, svuotò gli spazi, e trascinò con sé l’intero sogno imprenditoriale, economico, sociale e architettonico che l’aveva generata. A peggiorare la situazione si aggiunsero problemi impiantistici, infiltrazioni, il naturale degrado del plexiglass che ingiallisce, si opacizza e perde elasticità e una manutenzione sempre più difficile da sostenere.
Così quel luogo, che avrebbe potuto rappresentare un esempio di rigenerazione virtuosa, si è trasformato in un vuoto urbano, una frattura nel tessuto sociale e commerciale di Verdello. L’area è oggi degradata, il parcheggio inagibile, l’immobile in abbandono, oggetto di aste giudiziarie e interventi occasionali di messa in sicurezza. Eppure, l’interesse per una riconversione resiste: si ipotizzano demolizioni parziali, nuove destinazioni d’uso, soluzioni ibride. Ma ogni futuro possibile esige un atto preliminare: riconoscere l’errore. Perché il caso de La Francesca, oltre a essere un fallimento, è anche una lezione. Ci ricorda che il tempo, in architettura, non è solo quello che passa, ma quello che cambia. E che non esiste forma senza funzione, né bellezza senza durabilità. Ogni progetto, per essere autenticamente contemporaneo, deve farsi carico delle stagioni, dei costi, delle fragilità e della vita reale che lo abiterà.
Il caso non è isolato. Al contrario, rappresenta un esempio locale di un fenomeno globale. In numerose parti del mondo edifici avveniristici sono crollati sotto il peso della loro stessa ambizione progettuale. Basti pensare al Dongdaemun Design Plaza di Seoul: uno degli edifici più iconici e fotografati della città, progettato da Zaha Hadid. Pur essendo un capolavoro formale, la sua gestione operativa ha incontrato ostacoli significativi: spazi espositivi poco flessibili, problemi di accessibilità, costi energetici elevati. Anche in questo caso, la forma ha spesso prevalso sulla funzione, generando un corto circuito tra architettura e usabilità.
Oppure, ancora, il celebre Palace of the Parliament di Bucarest: un mostro architettonico da oltre 300.000 m², il secondo edificio amministrativo più grande al mondo. La sua costruzione, iniziata sotto il regime di Ceausescu, è costata l’equivalente del 40% del PIL nazionale. Oggi gran parte degli spazi resta inutilizzata, e i costi di manutenzione sono insostenibili. Un edificio che, pur essendo visitabile e imponente, è diventato simbolo di spreco e inefficienza.

Casi come questi ci costringono a mettere in discussione alcuni dei dogmi ancora presenti nella pratica progettuale: la centralità dell’estetica sulla sostenibilità; l’assenza di strategie adattive per il lungo periodo e l’illusione che la monumentalità coincida con la durabilità. Un edificio non fallisce solo perché brutto o costoso, ma perché incapace di dialogare con il tempo, con l’ambiente, con chi lo vive. L’architettura fallimentare non è solo un errore di calcolo o una cattiva esecuzione: è un’architettura che non evolve, che non ascolta, che si impone senza porsi domande.
Il caso della Francesca, oggi in attesa di una nuova destinazione, potrebbe essere l’occasione per ripensare radicalmente il rapporto tra progettazione e contesto. Non tutto è perduto se si è capaci di leggere il fallimento come opportunità critica, come campo fertile per una rigenerazione che non sia solo edilizia, ma soprattutto culturale.
L’architettura – quella buona – non è mai definitiva. È una forma che sa mutare, adattarsi, cambiare pelle. Anche quando tutto sembra perduto.






































