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Far parlare una scrittura letteraria

Far parlare una scrittura letteraria, facendola palpitare e vivere, al tempo stesso costringendo gli ascoltatori a “pensare storicamente”


Dichiaro di essere Emilio Isgrò, 2008 Emilio Isgrò, Collezione Centro per l’Arte contemporanea Luigi Pecci, Prato


Alcune sere fa all’Arena del Sole di Bologna ho visto lo spettacolo di Fabrizio Gifuni Con il vostro irridente silenzio e ne sono rimasto impressionato. Per diversi motivi e diversi moti del mio animo. Di certo la mia memoria si è riattivata legando il dire di Gifuni al mio Corpo di Stato di anni addietro, avevo delle ragioni in più per restare colpito. Ma la sostanza della mia emozione e del mio pensiero era dovuta ad altro, alla particolare forma teatrale che Gifuni aveva allestito. In scena lui non fa che leggere le lettere che Aldo Moro spedì o tentò di spedire dalla “prigione del popolo” ove era recluso ad opera di un commando dalle Brigate rosse. Gifuni stringe tra le mani le pagine, ogni tanto le legge, spesso no. Ma da subito ci dimentichiamo che sono pagine scritte, scaturiscono con tale veemenza che diventano voci, le tante voci degli stati d’animo di Moro-Gifuni.

All’inizio dello spettacolo, quasi ritualmente, chinandosi a prendere un velo di gesso Gifuni si è istoriato sulla capigliatura una frezza bianca, primo segno di identificazione col corpo recluso di Moro, identificazione che si fa via via più decisa e profonda, ed è questa una prima forte sensazione di spaesamento che mi accompagnerà anche a fine spettacolo, quando esausto lui prenderà gli scroscianti applausi. Sì, verso la fine, nel sapiente gioco di luci, Moro diventava sempre più presente in carne e voce. Era un morto, un fantasma insepolto e non pacificato, che riprendeva a esistere e a interrogarci sulla sua vicenda e la forza attorale di Gifuni mi costringeva a dolermi compassionevolmente del suo stato di prigioniero inascoltato dal Potere.

La forza dello spettacolo è poi data dal montaggio drammaturgico, da come sono state distillate le varie lettere, quelle recapitate e quelle tenute nascoste e mai rivelate, con le date a frontespizio che delineano terribilmente lo scorrere dei cinquantacinque giorni della prigionia, rotte ogni tanto dal Memoriale, le risposte che Moro ha senza reticenze dato ai brigatisti che lo interrogavano per far sapere al mondo, come dichiararono i brigatisti, “le verità su quei trent’anni di regime democristiano”. Memoriale che mai però le Brigate rosse hanno divulgato, aprendo inquietanti scenari sui perché di tale occultamento; Memoriale che oggi, nelle parole dell’attore Gifuni, suona come un atto di spietata accusa a un’intera classe dirigente, ma ancor più a un intero paese.

Ecco, l’eccezionalità dello spettacolo sta in questo mescolarsi di una vicenda umana terribile e di una Storia del nostro paese dove ancora oggi omertà, complotti, interessi innominabili vengono spartiti nei luoghi del Potere. Quando la voce di Gifuni nel Memoriale indica la figura malefica di Andreotti, ne mette in fila le nefandezze compiute, è chiaro che la fine di Moro è già stata segnata e la voce dell’attore si fa strozzata per l’incredulità di una fine annunciata dove nessuno dei cari amici democristiani di un tempo verrà a soccorrerlo. E pensare che pochi anni dopo, per il rapimento di Cirillo, le stesse personalità democristiane non ci penseranno due volte a pagare un riscatto per liberarlo con il tramite della camorra di Raffele Cutolo. Segno che Moro doveva essere fin dal principio il capro espiatorio di neanche troppe occulte manovre politiche.

Il Teatro dell’Arena del Sole era pieno, con tanti giovani, nemmeno nati in quel 1978 del sequestro e dell’uccisione di Moro. Gifuni è riuscito in un’impresa impervia, far parlare una scrittura letteraria, facendola palpitare e vivere, al tempo stesso costringendo gli ascoltatori a “pensare storicamente”. Sere prima a Ravenna al Teatro Alighieri ero andato a vedere Valter Malosti che portava in scena il testo di Levi Se questo è un uomo. Anche lì il teatro era pieno e anche lì l’attore aveva scelto di lasciare intatta la scrittura della pagina offrendo alle parole una voce asciutta, da cronaca, senza pathos e senza pietismi, un altro modo di vivificare la memoria non come atto museale depositato nella polvere ma come risonante monito ai viventi di oggi.


Entrambi i lavori riportano il teatro cosiddetto “civile” alla sua vera essenza, un parlare alla polis con le parole di chi per quella polis ha dato la vita. Un’ultima cosa. Ascoltando Gifuni e le parole sofferte delle lettere di Moro ancor più chiara mi è apparsa la possibilità di scrivere una tragedia contemporanea sulla vicenda. La storia di quei giorni è una shakespeariana tragica possibilità di trasposizione scenica. In effetti, come nelle antiche tragedie, in scena c’era un morto che usciva dalla tomba, a interrogarci.


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