Pensiero ecologico e storia
- Luciana Rocchi

- 16 lug
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 25 lug
Le complessità del rapporto fra storia umana e natura, comprensibili in una prospettiva storica

Quale struttura connette il granchio con
l'aragosta, l'orchidea con la primula e
tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei con
l'ameba da una parte e con lo schizofrenico
dall'altra.
Gregory Bateson,1979
Il pensiero ecologico ha un'origine relativamente lontana, ma è nella seconda metà del Novecento che ha prodotto una grande letteratura, con il corollario di un nuovo linguaggio, come accade nelle rivoluzioni scientifiche. Concetti chiave come l'unità fra mente e natura e l'attenzione verso popoli che hanno saputo trarre il senso della propria identità dal rapporto con la natura hanno messo in discussione modelli di pensiero divenuti obsoleti e la separazione rigida fra ambiti disciplinari. Carattere comune ai teorici della complessità, quasi mai classificabili all'interno di una disciplina, è la costruzione di itinerari che non si limitano a superare le barriere fra i saperi scientifici, mentre accostano scienze a letterature, filosofie a mitologie, creando relazioni fra tempi e spazi lontani. Leggere opere come Fato antico, fato moderno (De Santillana, 1968) o Il mulino di Amleto (De Santillana, von Dechend, 1969), il cui autore si definisce storico della scienza, suscita una sorta di vertigine.
Le grandi cosmogonie antiche di ogni continente apparentate all'astronomia galileiana, il fato messo a confronto con la necessità delle leggi dell'astronomia, il pensiero moderno con la μουσική, che nell'antica Grecia non significava solo l'armoniosa “danza dei corpi celesti”, ma armonia e ritmo nell'uomo, che «...dovrebbero sostenere il “logo che canta” e che deve esprimere il vero». Sono parole e visioni che abbiamo dimenticato, perché “Noialtri si viene da lunghi secoli di cultura in prosa, ma allora non c'erano che i poeti...” (De Santillana, 1968). È come se ci si fosse accorti che, pur se irrinunciabile, non basta più alla scienza il rigore logico e c'è una nuova forma di bellezza del discorso scientifico, che si appropria di idee e immagini prodotte da culture diverse, pur senza perdere il gusto per l'eleganza delle proposizioni matematiche.
Per uno fra i più autorevoli teorici del pensiero ecologico - l'antropologo, psichiatra, epistemologo Bateson - la condizione necessaria a correggere pericolosi errori epistemologici sarebbe “trovare la giusta sincronia e armonia tra rigore e immaginazione” (Gregory Bateson, 1979) Non per caso trae gli argomenti per proporre un nuovo modo di pensare da poeti, filosofi e artisti – Shakespeare fra i più citati. Domandarsi quanto di questa rivoluzione scientifica si sia effettivamente concretizzato in un diverso approccio alla interpretazione e alla soluzione della crisi del rapporto uomo-ambiente, giunta oggi alle soglie di una catastrofe, significa prendere atto di un almeno parziale tradimento della promessa di rinnovamento della conoscenza e delle sue applicazioni.
La storia, l'ambito disciplinare che frequento sia come ricerca che come trasmissione di conoscenze, ne ricevette una spinta importante. Fu il cuore del progetto, tanto ambizioso quanto complicato, di una enciclopedia con cui presentare i modi (al plurale!) di organizzare il sapere, ideato tra anni Sessanta e Settanta appunto da uno storico, Ruggiero Romano, e accolto dall'editore Einaudi, nella cui realizzazione furono coinvolti scienziati e filosofi coordinati da lui. Introducendo il volume di presentazione Il sapere come rete di modelli. La conoscenza oggi (Romano, 1985), in poche, densissime pagine l'autore spiegava l'anacronismo di gerarchie tra discipline, l'abbandono del concetto di centro e periferie, sostituito da rete di modelli scientifici.
È mutata l'idea stessa di scienza, scriveva, che “un secolo fa significava indicare un elemento di opposizione a qualcosa di “altro”, di “estraneo”: la natura. Oggi, veramente, si può dire che la scienza è quel qualcosa che aiuta l'uomo nella sua lotta contro la natura?” (Romano, 1981). Innegabile l'assonanza con l'idea di fato moderno, rappresentato da De Santillana come volontà di potenza dell'uomo sulla natura, degenerazione della scienza moderna. L'impresa editoriale dell'Enciclopedia Einaudi ebbe un successo effimero, ma lo stesso impianto raccolse critiche severe; ne troviamo tracce in un intervento di Romano sulla rivista “Belfagor”: Dell'Enciclopedia Einaudi e di una sassaiola, dagli argomenti dell'autodifesa si capisce che erano indigeste alla cultura più tradizionalista le “forme concrete di metadisciplinarietà”, che permettevano a un fisico di entrare “come autorità nelle scienze umane” e viceversa (Romano, 1985).
Nella sua disciplina, Ruggiero Romano fu un innovatore; portò in Italia la rivoluzione epistemologica della scuola francese delle Annales, il cui “manifesto” fu Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II (Braudel, 1976), iniziato dall'autore durante i cinque anni di prigionia in Germania e uscito in Francia in una prima edizione nel 1949. Il primo capitolo è L'ambiente, primo attore di una storia in cui il problema che assilla lo storico è l'articolazione spazio/tempo, risolta con la categoria di durata e l'intreccio fra tempi lunghissimi, lunghi e brevi. Non basta l'histoire événementielle, quella della superficie, “storia di oscillazioni brevi, rapide, nervose, la più appassionante, la più ricca di umanità” (Braudel, 1976), se manca lo sguardo sui grandi spazi e i tempi lunghissimi delle persistenze.
Dagli studi sull'età moderna nasceva la categoria di economia-mondo, lettura delle dinamiche del capitalismo storico, che mise in relazione studiosi europei (Immanuel Wallerstein il maggiore) e centri di ricerca statunitensi. Si creò un movimento della cultura storica che produsse contaminazioni feconde; ne è esempio un'opera pubblicata in Francia nel 1967 e circolata in tutta Europa, Tempo di festa, tempo di carestia. Una storia del clima dall'anno mille (Le Roy Ladurie, 1982), “approccio storiografico all'ecologia [in cui] ogni anno nuovi dati modificano il campo scientifico della disciplina, ma rendono tanto più pertinenti e indispensabili al ricercatore le acquisizioni archivistiche”. Rileggerla oggi testimonia consapevolezza della complessità del rapporto fra storia climatica e storia umana, affrontata come storia interdisciplinare e comparata. Una grande trasformazione culturale avrebbe richiesto un mutamento sostanziale nel sistema di trasmissione della conoscenza. Molte pagine di Verso un'ecologia della mente (Bateson, 1972) erano rivolte a pedagogisti e insegnanti, come le indicazioni che l'antropologa traeva da ricerche comparate sulle forme dell'evoluzione culturale necessarie per misurarsi con Un futuro senza volto (Mead, 1964).
Ne derivò un movimento ricco ma effimero – riviste, pubblicazioni divulgative, eventi, coraggiose sperimentazioni in classe – ma non una trasformazione radicale del sistema scolastico, che negli anni Duemila ha potuto assumere un orientamento contrario, interpretando l'istruzione come addestramento professionale piuttosto che educazione all'uso critico del sapere, ricostituendo gerarchie lontane dall'auspicato nuovo umanesimo. Anche la grande lezione della nuova storia è dimenticata, se dall'istruzione superiore è stata quasi cancellata la geografia e la storia politica continua a prevalere. Nel laboratorio degli storici contemporaneisti degli anni Duemila si sta rispondendo alla crisi della democrazia con un ritorno alla storia politica, anche se metodologicamente rinnovata dallo studio delle strutture sociali.
Trova spazio un recupero della vecchia idea di militanza dello storico, che si appropria di un linguaggio e di procedure di tipo giornalistico: “Fact checking: la storia alla prova dei fatti”, per smascherare: “mistificazioni e imbrogli retorici”. Sono concetti su cui si fonda una risposta anacronistica, ancorché esibita come innovativa, a un problema reale: il fenomeno di un vigoroso uso politico della storia, amplificatosi in tempi recentissimi. Il rischio è un impoverimento della ricerca storica, una sorta di sic et non declinato nei fatti come scontro ideologico. Non è dato sapere quanto possa giovare una diversa forma di conoscenza e di trasmissione del sapere storico, quanto la consapevolezza della “struttura che connette” possa contribuire a evitare forme distorte di sviluppo e malessere per gli umani e tenere sotto controllo i rischi ormai di dimensioni enormi per la natura tutta, umani compresi.
Certo non dovremmo prescindere dalla comprensione delle ragioni del variare delle relazioni uomo-ambiente e dovremmo imparare a pensare in termini di storie il mondo umano e naturale, a usare la parola contesto per interpretare armonie e disarmonie dei territori, a togliere al paesaggio l'attributo “naturale” e impararne la storicità. Se vorremo tentare di curare le città malate, sarà indispensabile risalire al loro “nascimento” per capire che rispondono a bisogni, diversi nei tempi e nei luoghi, ma comunque e dovunque sono incontro e relazione fra esseri umani, che costruiscono diverse grammatiche delle civiltà. E capire che al fenomeno della solitudine, la malattia delle città attuali, è simmetrico il ritorno al confine come strumento identitario, barriera di separazione conseguente a guerre fra stati, che ha rapidamente risvegliato frontiere culturali e mentali dure a morire.


































