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Questo si chiama perdersi, per poi ritrovarsi

La magia del teatro sta nell'assurda, ancestrale, antica compresenza di spazio e tempo da condividere per la durata dello spettacolo


Marco Baliani in scena



finché giunge il momento in cui bisogna morire per la scena e per il mondo e si deve morire con il viso di oggi e in quelle tre ore provare ad esprimere un eccezionale destino. Questo si chiama perdersi, per poi ritrovarsi.

Albert Camus

Dunque davvero torneremo a guardarci ed ascoltarci dentro uno spazio teatrale? Accadrà ancora di sentire dalle quinte il brusio degli spettatori in attesa? Un brusio fievole stavolta, ridotto nei volumi delle voci come ridotti sono i posti assegnati, ma un mormorio bello da sentire, come un piccolo ruscello che ripete “insieme, insieme”. Per me tornare il 6 maggio a calpestare con i piedi di Tano il Teatro delle Muse di Ancona sarà un’esperienza unica, mai fatta prima. Perché prima ero certo, un tempo, che ancora e ancora avrei potuto parlare in scena con il volto di Tano e agitarmi a inseguire il mio cane Uni, ero sicuro come tutti che le esperienze salde che ci accomunavano si sarebbero potute ripetere, variandole certo, ma con la costanza della fedeltà, con quei legami di cui parla la volpe del Piccolo Principe, che tengono uniti gli esseri e li rendono preziosi. Tutto questo patrimonio di relazioni e di percezioni, di contatti, odori, respiri in un anno e mezzo di obbligatoria necessaria clausura è andato perduto, evaporato come una bolla di sapone al sole. E ci siamo ritrovati a dovere immaginare fortemente una ripresa illudendoci sempre che sarebbe tutto tornato come prima. Ora sappiamo che non sarà così, anche questa stupenda possibilità di essere in scena paga il prezzo della disabitudine al convivio e alla comunanza. Dovrò sottopormi al tampone ogni settantadue ore, e con me tutti i tecnici preziosi che mi accompagnano, e gli spettatori a loro volta saranno dispersi tra loro, lontani, con mascherine in volto. Ma sarà comunque un segno, anzi un sogno. Perché ciò che sempre conta nell’atto teatrale non è mica il contenuto di quello spettacolo o la forma che ha assunto, la bravura dell’attore o del gruppo, l’originalità delle scene. Sì, tutto questo conta e fa la differenza di poesia e di arte, ma ciò che veramente accade in quello spazio, unico, come il cane di Tano, è lo stare insieme, lì dentro, insieme di nuovo come alle origini della nostra specie, è questo atto di reciproca fiducia e ascolto, questo fremere di corpi e spiriti, quello che davvero accade. È quello l’evento. La cosiddetta magia del teatro sta proprio in questa assurda, ancestrale, antica compresenza di spazio e tempo da condividere per la durata dello spettacolo, che dura sempre molto di più di quello che l’orologio conteggia. Non so quanti saranno gli spettatori che vorranno provare a sedersi nel buio del teatro delle Muse, ma so che dovrò, per loro, agire la storia di Tano in quella notte sbagliata, come fosse l’ultima replica del mondo, come fosse una epifania, la manifestazione di quell’energia paurosa che il teatro può sprigionare, non sempre, solo quando si sta in scena come si stesse per morire. Dovrebbe forse essere così ogni atto del nostro vivere, se non fossimo tanto distratti e volutamente scompensati e attratti dai bagliori luccicanti del gran mondo. Stavolta Tano si perderà davvero nella sua notte errata, errando, nel buio dove il teatro vive, dove non penetra la luce del sole, ma d’altra parte se il mondo fosse chiaro l’arte non esisterebbe. Quindi agirò, per loro, gli spettatori, come testimoni di un’apparizione dopo tanta nebbia e isolamento, ce la metterò tutta per esserci come non mai, con tutta la fatica che comporta, costruire quel mondo effimero per poi, di nuovo abbandonarlo quando il richiamo della realtà prevarrà sul sogno.


E poi lo farò per Tano, una persona ormai che ha smesso di essere personaggio, per me, uno di quelli che ho sempre amato, i perdenti, i borderline, i non riconciliati, quelli che stanno nel mondo senza permesso di soggiorno, spiriti inquieti, labili, eppure decisi a esserci, a volte addirittura gioiosamente. Tano vorrebbe sempre starsene in quel punto dello spazio dove la vita ha concesso un armistizio al tempo, prima che le cose accadano in quell’unico modo, prima che il Destino stenda la sua rete. Assomiglio a lui, per questo ho avuto la fortuna e la gioia di scegliere il teatro, lì dentro la realtà non ce la potrà mai fare a intrappolarmi, neanche questo virus maledetto che abbiamo alimentato con la nostra dissennatezza di umani troppo affamati di mondo. Qui dentro, una sola notte basta e avanza per me a farmi fratello di Tano, di più, a essere lui, a sentirlo palpitare in me, grazie a quegli occhi e a quei corpi che se ne stanno lì davanti, e fremono, e mandano bagliori pur nell’oscurità della sala.


© Edizioni Archos

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