Adolescenze
- Marco Baliani
- 1 giorno fa
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L’esperienza del bullismo a scuola. Nella memoria delle vittime restano, il senso d’impotenza e di isolamento, i momenti di angoscia e di impotenza, nodi chiari e duraturi nelle loro esistenze

Quando ero in prima media fui anch’io bullizzato, ma allora non esisteva questo termine, che oggi uniforma, in una categoria astratta, le più diverse forme di persecuzione giovanile. I miei personali persecutori erano due energumeni di terza media, a noi pischelli di prima quelli di terza parevano già uomini fatti, avevano perfino i peli, e quando ridevano avevano già imparato a sghignazzare.
A quei due gli arrivavo sì e no alle spalle e neanche potevo immaginare di potermi battere con loro, non ricordo nemmeno più da dove si originasse quel loro diabolico divertimento contro di me, forse il fatto casuale di prendere lo stesso autobus per tornare alle nostre estreme periferie, avevano subodorato la mia diversità, una mia estrema sensibilità, quel sesto senso che possiedono i persecutori nell’individuare le loro vittime, che vengono rese così ancor più 'differenti' dalla norma.
Forse volevano solo divertirsi così, vessandomi, perché c’è sempre, operante magari a livelli inconsapevoli, un certo divertimento da parte dell’aguzzino nell’angariare la propria vittima, un piacere che nasce in zone oscure del nostro essere e che è una componente della parte in ombra che tutti possediamo. Ma non ha più importanza ormai quale fosse l’origine della mia personale persecuzione; nella memoria restano i momenti di angoscia e di impotenza, nodi chiari e duraturi della mia esistenza.
Qui il ricordo mi serve solo per confrontare la mia persecuzione di allora con i bulli adolescenti di oggi e con le loro vittime. In primo luogo il mio ricevere le loro spinte, calci, mani al culo, battute, cattiverie varie e potenti proprio perché gratuite, tutto questo accadeva concretamente sul mio corpo, era sempre una questione di corpi in contatto, anche se in forme brutali, ma il mio corpo apparteneva a uno spazio e a un tempo ristretto, circoscritto, il sapere di quell’accadimento ripetuto era confinato tra me e loro, più alcuni miei compagni di classe, quelli che mi erano più amici, che sapevano della mia disgrazia (così almeno a loro potevo raccontarla e già raccontando faccia a faccia con loro riuscivo a distanziarmene) e davano suggerimenti su come inventarsi possibili risposte, più che altro depistaggi ridicoli, che mai funzionavano, e alla fine mi ritrovavo a prenderle e a cercare con angoscia di evitare quella corsa di autobus insieme a quei due il giorno dopo.
I nostri corpi erano messi in mezzo in uno spazio tempo delimitato e interamente 'nostro', circoscritto, le dispute, le zuffe, le risse, si svolgevano in luoghi di cui conoscevamo il recinto. I genitori non c'erano, non potevano interferire con quei nostri materici contatti corporei. Appena possibile poi, anche noi negli anni ci creavamo il nostro alfabeto segreto, un linguaggio inventato che ci proteggesse dagli sguardi adulti, dalle loro apprensioni, domande, richieste. Dunque, apparentemente, rispetto al presente, nulla di nuovo sotto il sole.
La differenza con l’oggi è nell’amplificazione infinita del fatto in sé, la potenza di diffusione del messaggio iniziale, la prima stigmatizzazione diventa valanga, si espande, tutto travolge. Il corpo, già fragile di suo come tutti i corpi che attraversano il difficile passaggio dall’infanzia all’adolescenza, diventa ancora più esile. Il fatto è che il corpo dell’offeso o del perseguitato non gli appartiene più, ne è stato spossessato, trasferito in una immagine-icona che lo delimita, e che, raccogliendo in forme esponenziali la stigmatizzazione iniziale, crea una figura puntaspilli su cui si accumula una violenza verbale e visiva contro cui la vittima non può fare nulla. La sua immagine derisa vive ormai per conto suo, sballottata, strattonata, e offerta allo sterminato pubblico ludibrio.
Si è impotenti e incapaci di reagire, anzi ogni tentativo di reazione viene immediatamente deriso e rischia di peggiorare la definizione dell’immagine iniziale.È come se i miei due energumeni di allora avessero avuto a disposizione una platea pressoché infinita di propri simili a cui offrire il gioco avvilente che esercitavano su di me, aizzandosi anzi grazie alle risposte ottenute, alla quantità di adesioni accumulate, alle proposte su come aumentare il carico persecutorio.
I persecutori hanno sempre i loro fans, che possono partecipare virtualmente alla gogna. La vittima invece non ha nessuno, e non ha parola, è afasica. La violenza che si esercita su di essa è molto più potente che se si limitasse ai soli contatti fisici violenti, che in certi casi possono addirittura essere assenti.L’amplificazione che i social permettono fa sì che la vittima, pur di sottrarsi a quella trappola, può reagire diventando a sua volta più violenta degli stessi persecutori, spingendo il corpo a compiere gesti estremi di rivolta, di pura follia omicida, facendo uscire il corpo di colpo dalla reclusione dell’immagine in cui è stato dislocato e costretto.
Oppure il più delle volte la vittima si vittimizza ancora di più, incamera su di sé le violenze subite e decide di annientarsi uscendo di scena, uscendo dal video, uccidendo in un sol colpo immagine e corpoCiò che viene a mancare del tutto è la relazione, il contatto coi propri simili, la condivisione degli accadimenti, anche quelli persecutori. La solitudine della vittima è quella di un corpo che non riesce più a relazionarsi 'tattilmente' con i propri simili. Il bullismo funziona con la stessa veemenza isolazionista di una pandemia, esclude, respinge, costringe la vittima ad un immobilismo corporeo, a farla sentire un recluso, mentre a viaggiare e muoversi è sempre e solo la sua immagine, che continua ad espandersi nell’accanimento persecutorio.