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Firenze e l’eredità culturale del patrimonio religioso

Aggiornamento: 25 lug

Per costruire il futuro occorre preservare il passato, la sua cultura, quella parte immateriale che la materia ci sa raccontare, ma occorre saperlo reinterpretare


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Il Chiostro Grande del convento di Santa Maria Novella a Firenze


Intervento di Edoardo Milesi sulla progettazione nei luoghi di culto fatto al seminario di progettazione “Spazi di Confine: Nel cavo della città densa”, tenutosi nel mese di febbraio 2024, organizzato dal DIDA Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze.

 

Biodiversità, rapporto con la campagna, concetto di bene comune, ricerca di identità territoriale, implicano modi alternativi - ma non nuovi - di pensare la città che vanno oltre l’aspetto architettonico che, anche se in grado di influenzare i comportamenti, ne è per lo più la conseguenza. Concetti questi tutti contenuti nelle grandi opere del passato una volta collocate ai margini della città densa, dove il rapporto con la campagna e con la natura era pensiero dominante. Inoltre, le grandi chiese romaniche, i chiostri, i sagrati furono costruiti dal popolo, da tutti, e in essi i cittadini si sentivano parte della comunità.

 

Insomma, i contenitori adatti a innescare nuovi metabolismi, sono quelli che già esistono e che conservano la memoria di quanto è successo dentro di loro. Ottenere tutto ciò significa analizzare e conoscere il contesto in cui si deve operare affinché il dialogo parta proprio dalla consapevolezza della necessità di quel luogo, di quel programma per il territorio che lo ospita e che da questo dovrà trarre nuovi processi di crescita. 

 

Per costruire il futuro occorre preservare il passato, la sua cultura, quella parte immateriale che la materia ci sa raccontare, ma occorre saperlo reinterpretare. Dobbiamo orientare i processi di riappropriazione del luogo verso una prospettiva in grado di integrare - e non allontanare - uomo e natura, architettura e genius loci, senza scorciatoie, lasciando che le cose si conoscano, si apprezzino e si confondano.

 

La vera architettura si riconosce e si giudica da quello che riesce a far accadere nei comportamenti delle persone, per come è in grado di coinvolgerle. Dobbiamo innescare processi dove sia attivata una responsabilità collettiva in grado di prendersi cura del progetto sin dai suoi primi passi. I processi sociali e la forma spaziale sono intimamente correlati, questo implica, da parte dell’architetto un pensiero olistico e un approccio generalista che metta davanti a ogni scelta la qualità dell’abitare strettamente correlata con il minimo impatto ambientale soprattutto la dove la forma si è modellata nel tempo all’interno di sistemi integrati e correlati.

 

Tuttavia, è fondamentale che nei “contenitori” e nelle loro aree urbane di pertinenza vengano espressi nuovi contenuti in linea con le aspettative sociali crescenti che non sono così diverse da quelle narrate quando il luogo si è formato. I grandi predicatori, come il Savonarola e San Bernardino da Siena (1), parlavano del loro Dio, ma anche di natura, di costumi, di comportamenti, di contrasti sociali, di economia, insomma di politica, di polis. La cultura sociale si genera stando assieme, abitando assieme lo spazio. La cultura è autopoietica, si produce mentre si manifesta, spesso nel conflitto.

 

Affrontare il nesso tra il benessere degli abitanti, la conoscenza attiva dei luoghi e il loro utilizzo consapevole non può trascurare il fatto che le nostre città sono meta di abitanti diversi per cultura, classe sociale, economie, ma anche di altri esseri viventi (come gli alberi) e di cose, oggetti che della vita conservano la memoria e che comunicano incessantemente con noi.

 

Se il progetto di architettura consiste nel generare sistemi di relazione è chiaro che la realizzazione di tale progetto non consiste nella trasformazione dello spazio, ma nel processo che tale trasformazione comporta a livello di comportamenti tra gli esseri e le cose coinvolte e il progetto in quanto processo è sempre attivo, mai finito, sempre pronto a modificarsi, come la vita.


(1)    “La fatica alla quale Bernardino, in quanto predicatore, si sottoponeva era pesante: il suo scrupolo lo portava a scriverne anche più di una versione prima di salire sul pulpito, per quanto sappiamo poi che spesso egli improvvisava. In seguito ai suoi cicli di predicazione in varie città, specie durante la quaresima, si giungeva a modificare gli statuti cittadini nei quali s’inserivano norme per facilitare la riconciliazione tra le famiglie e le fazioni contendenti o per più duramente reprimere giochi d’azzardo, usanze connesse all’usura, costumi omosessuali, riti stregonici”.

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