I Gesuiti a Venezia tra storia e utopia
Il rapporto tra i Gesuiti e Venezia, che parte dal 1537 quando Ignazio di Loyola fondò la Compagnia di Gesù, conosciuta come l’ordine dei Gesuiti

Canaletto, Campo e la chiesa dei Gesuiti
Venezia non è un destino della vita, ne è una condizione. La sua è una dimensione anfibia, doppia, ambigua, è oscillazione tra acqua e terra, ma anche tra la natura e il sistema di cui essa è protagonista culturale, metodo, ispirazione e stimolo. In questa veste molteplice, essa partorisce, cura e accoglie storie che si sviluppano su più piani narrativi, si sovrappongono fino ad integrarsi senza stabilire distanze dalle origini ambientali. Le quali richiedono misure costruttive speciali, tali da permettere e favorire la vita associativa, i sistemi relazionali, il movimento e lo scambio. Cosicché, l’eco delle origini riemerge nello splendore del palazzo che è anche simbolo della conquista, nel campo con il pozzo che riunisce la varietà della vita e celebra lo spazio, nella chiesa dove virtù, propositi, aspirazioni e abilità trovano una loro forma unitaria nel pensiero umano del divino, nei canali dove la storia e la biologia si ritrovano nella complessione delle sembianze miracolose della città.
In questo percorso è possibile collocare anche Santa Maria Assunta, più nota come Chiesa dei Gesuiti che dell’ordine fondato da Sant’Ignazio di Loyola esprime la grandezza immaginifica di Dio in terra, l’utopia, la volontà di rendere visibile agli uomini la presenza di Dio, intrecciarla con la qualità di Venezia che spinge ad andare oltre, a cullare le ambizioni. La chiesa è costruita su un complesso religioso del XII secolo appartenente ai Crociferi o Cresechieri, un Ordine soppresso nel 1656 da papa Alessandro VII per una serie di scandali. I beni verranno donati alla Serenissima e serviranno a ricomporre un conflitto di giurisdizione tra la Repubblica di Venezia e il Papato, con conseguenze anche per l’Ordine di Sant’Ignazio. Il progetto è di Domenico Rossi e la sua consacrazione è del 1728.
I Gesuiti acquistarono la chiesa, cui erano annessi il monastero e l’ospedale, nel 1657, un secolo dopo la morte del fondatore dell’ordine che proprio a Venezia era stato ordinato sacerdote nel 1537, unitamente a San Francisco Xavier. Nelle nicchie della facciata sono visibili gli stemmi della famiglia Manin, di origine friulana, che finanziò generosamente la costruzione del tempio, un solido lasciapassare per entrare a pieno diritto nella nobiltà veneziana, identificandosi con la magnificenza e la grandiosità della chiesa. Al centro del presbiterio, ai piedi della breve scalinata di marmo intarsiato dell’altare, l’epitaffio della tomba della famiglia ricorda Aeternitati suae Manini cineres. La navata unica dell’edificio raccoglie in un unicum visuale la complessità esuberante di un interno la cui grandiosità non solo è visibile, ma tangibile per gli intarsi lapidei che si possono toccare e accarezzare, sentire. Fra le opere esposte, va citata l’Assunzione della Vergine, opera giovanile di Tintoretto e il Martirio di San Lorenzo, opera eccelsa di Tiziano. La sacrestia ospita un ciclo di venti opere di Jacopo Palma il Giovane. Sulla parete del portale d’ingresso è possibile ammirare il monumento funerario della famiglia Da Lezze, opera di Jacopo Sansovino, con la statua di Priamo Da Lezze di Alessandro Vittoria.
Ignazio di Loyola e i Gesuiti
Sant’Ignazio di Loyola visitò Venezia una prima volta nel 1523, in viaggio verso Gerusalemme, in una fase di iniziazione della sua vita in cui sta elaborando e maturando il progetto religioso e i suoi dettagli. A Venezia incontra il doge Andrea Gritti, artefice del grande rinnovamento rinascimentale della città lagunare che si va riprendendo dalla grave crisi culminata con Agnadello. Venezia gli apparve nello splendore “trionfante” ricordato da Philippe de Commynes, nella magnificenza della Processione in piazza san Marco di Gentile Bellini. È attento spettatore del fermento rinascimentale, osserva e conosce la vita della Serenissima e partecipa alla processione del Corpus Domini con i suoi compagni di viaggio, due svizzeri, un tirolese e tre spagnoli. Nella Dominante ritornò nel 1535 e quindi nel 1537, anno in cui prese gli ordini religiosi con San Francisco Xavier. Si trattò di un incontro più che di una visita e non escluderei che nel prodigio dell’esistenza di Venezia egli abbia trovato una suggestiva configurazione della grandezza esaltante di Dio che aveva caratterizzato la Roma di Niccolò V, nell’eco del famoso detto, “Rafforzare la debole fede con quello che si vede”, ora programma visibile nel grande rinnovamento della città promosso dal doge Andrea Gritti.
Tra le cose mirabili della chiesa dei Gesuiti, spicca il pavimento realizzato con lastre di pietra d’Istria incastrate e con un intarsio di fascette di marmo verde. Il motivo dell’incastro è particolarmente raffinato nel presbiterio dove i gradini dell’altare sono coperti da un finto tappeto di marmo intarsiato; il pulpito è ricoperto da un tendaggio di marmo damascato, gli intarsi ricoprono anche le pareti realizzando una decorazione di grande effetto, la quale non colpisce soltanto la vista, ma spinge il tatto a partecipare, ad aggiungere una sensazione di fisicità che avvicina la grandezza all’uomo tangibilmente.

Tiziano, Il martirio di San Lorenzo
Il Martirio di San Lorenzo e la metafora della redenzione
Tra le opere di grande significato e potenza artistica della chiesa, va citato il Martirio di san Lorenzo del Tiziano. Il pittore cadorino realizza la pala su commissione della nobile veneziana Elisabetta Querini, nel 1547, la consegna avviene nel 1558, quando i committenti sono morti, o in procinto. La nobildonna aveva sposato nel 1512 Lorenzo Massolo, rampollo di una potente famiglia che in questo modo soddisfaceva con successo l’ambizione di rientrare a pieno titolo a Venezia. Elisabetta Querini è un personaggio attivo e influente dell’ambiente culturale della Serenissima in cui vanta l’amicizia di Bembo, Aretino, Tiziano e Della Casa. Il figlio Pietro è fuggito da Venezia perché, dopo due mesi di matrimonio, ha ucciso la moglie Chiara Trevisan e si è rifugiato in un convento del mantovano dove ha preso gli ordini con il nome di Lorenzo. La pala è destinata alla chiesa dei Crociferi, di cui è procuratore laico Stefano Tiepolo, chiamato a perorare l’offerta di pace presso la famiglia della giovane assassinata e il ritorno del figlio profugo.
Avvolto dalla luce dei carboni ardenti, San Lorenzo tende le braccia verso l’alto, tra l’implorante e la disperazione, un carnefice attizza il fuoco, un altro lacera le carni del santo, una terza figura lo tiene fermo. Nella penombra si muovono varie figure e sullo sfondo si profila il colonnato di un imponente edificio romano, tutte corposità efficaci a rimarcare il contrasto tra la luce che avvolge San Lorenzo, trasmettendosi alla scena e il buio nel quale si introduce la fievole luminosità di due torce su piani differenti, nonché il riflesso dell’armatura di un soldato. In alto, si impone uno squarcio nel buio fitto, è la luce di Dio, della speranza e forse della vita. Il martirio è collocato appunto nello splendore della redenzione, della materia luminosa che rinnova la storia stessa del martirio e apre un varco nelle tenebre della sofferenza. La luce è interna, agisce da più punti e crea effetti che danno al quadro movimento e pathos in consonanza con il supplizio. Nel processo narrativo l’elemento materico introduce il contrasto cromatico, un tono che ne aumenta la drammaticità. Da Tiziano in poi la pittura si impossessa della “materia narrante” come testimoniano il Manierismo, Caravaggio e poi via via le scuole e gli stili fino al Novecento in cui essa viene chiamata ad esprimere le sue potenzialità espressive e formali, a dire che cosa è capace di fare; valga per tutti l'opera novecentesca di Rothko, di Pollock, Tàpies, Burri. Filippo II di Spagna rimase affascinato dal quadro e chiese a Tiziano una versione per l’altare maggiore della chiesa dell’Escorial che gli venne recapitata nel 1567.
Nella chiesa si respira la stessa aria di utopia che aleggia nella Missione di San Ignacio Minì, in terra argentina, dove i Gesuiti costruirono una comunità ed eressero una chiesa monumentale decisamente sproporzionata per i canoni locali degli indios Guaranì, ma adatta a celebrare la grandezza di Dio. L’uno e l’altro complesso religioso sembrano emergere, seppur nella distanza, dall’umana idea di Dio con il sapore dell’utopia necessaria per pensare all’oltre.
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