Kibera, Nairobi - Ars Maieutica nei luoghi dell’inferno
Il "Laboratorio Città Informale" del Dipartimento di Architettura di Pescara è entrato nello slum di Kibera a Nairobi interrogandosi su possibili strategie da attuare per la sua rigenerazione
Photos © Gloria Bazzoni
Il secolo scorso è stato decisivo per l’acuirsi delle ingiustizie sociali, palesemente consegnate dalle differenze tra la città dei ricchi e la città dei poveri. La dimensione entro cui l’architetto contemporaneo opera è più dilatata che mai, comprendendo spazi fisici e non, di un giardino planetario in cui non si sa bene come si possa essere bravi giardinieri (G. Clément, 2013). Le nostre discipline, in particolare l’architettura e l’urbanistica, unitamente a tutte le arti, non possono essere acquiescenti: non possono che rimanere continuo esercizio di radicale critica sociale (B. Secchi, 2005) e incrociare, in alcuni luoghi più urgentemente che in altri, un dovere etico di riflessione e mobilitazione progettuale.
Questi luoghi, non a caso qui definiti ‘dell’inferno’, possono essere laboratori di esperienza progettuale utili alla vita di chi li abita e, al tempo stesso, occasione di riflessione critica sulla mission della nostra professione, rivedendo i quadri cognitivi che legittimano l’azione: fino a riformulare i paradigmi su cui basare il nostro pensiero e il nostro metodo di investigazione e progetto. Più che nel passato, l’architetto contemporaneo è un viaggiatore esploratore dei luoghi più estremi, oltre orizzonti sicuri, varcando soglie che aprono al rischio, mettendo il proprio operato a servizio di realtà relegate ai margini, e non solo per opera di terze parti. Territori in cui le condizioni dell’abitare sono ridotte alla miseria; realtà chiuse, nelle quali regole interne costruiscono equilibri unici, a noi spesso inspiegabili; insediamenti dove il rapporto con la natura è un disastro, dove non vi è alcuna forma di educazione nell’uso del suolo, dove la nicchia - come la vita stessa - è più effimera che mai. In questi luoghi bisogna entrare in punta di piedi per ascoltare e provare a costruire un dialogo con le cose e le persone, nel tentativo di “tirar fuori” possibilità di una qualche forma di dignità… un’utopia tutta da costruire.
Perché l’architettura ha questo dovere: deve farsi arma per risanare il mondo, partendo dall’uomo e migliorandolo. Nel suo bellissimo pamphlet “Progettare, costruire, curare” Nicola Emery ci ricorda che già nella “Repubblica” di Platone si afferma l’esistenza di “una radianza, una emanazione che viene dalle cose, dai paesaggi architettonici che agiscono in noi, che ci condizionano… l’architettura non riflette soltanto le identità sociali, ma contribuisce attivamente a formarle”. L’attività dell’architetto trova dunque un fondamento nell’aver cura di questa intrinseca valenza/essenza pedagogica della città. Kibera, slum di Nairobi, in Kenya, è uno di questi angoli estremi, spazio altro, eterotopia in cui paradossalmente la vita e il senso di comunità sono gli unici valori di un inferno umano e urbano. Insediamento informale segnato dall’estrema povertà, da condizioni igieniche critiche e da un’elevata percentuale di malati di HIV. Iniziò a prendere forma nel 1912, quando il governo coloniale britannico fondò un insediamento per i 600 soldati Nubiani del reggimento Kings African Rifles e le loro famiglie. Il nome “Kibera” deriva dal nubiano e significa “foresta”: si trattava infatti di un’area di boschi.
Pochi anni dopo, l’intera area, per un’estensione di 4 km², fu dichiarata “riserva militare”. Nel 1928 l’esercito britannico trasferì l’amministrazione di Kibera al consiglio comunale di Nairobi: il primo atto dell’amministrazione civile fu quello di revocare temporaneamente tutti i permessi abitativi, chiedendo agli abitanti di Kibera di dare prova della loro discendenza nubiana.
A coloro che provarono tale discendenza venne concesso il titolo di Tenant of the Crown (inquilino della Corona), che comportava il diritto di risiedere a Kibera ma anche la possibilità di perdere tale diritto in seguito a una decisione unilaterale delle autorità. Come conseguenza di questa precarietà, a Kibera non potevano essere edificate abitazioni di mattoni e cemento: ancora oggi il governo ha il potere di demolire qualunque struttura o proprietà di Kibera. Nel 1948, il degenerare delle condizioni di igiene portò alla formulazione delle prime richieste formali di smantellamento dello slum. Questo progetto non fu mai portato a compimento, e la popolazione continuò a crescere, fino a una vera e propria esplosione demografica a partire dagli anni settanta: dai 6000 abitanti del 1965 si passò a 62.000 nel 1980, 248.360 nel 1992 e 500.000 nel 1998.
Con una crescita annuale stimata al 17%, la popolazione attuale (mai formalmente censita) viene valutata fra 700.000 e 1.000.000 di persone, con una densità di popolazione di 200.000 persone per km², il che corrisponde a 3-4 persone per ogni stanza di ogni abitazione. Lo slum si presenta come un densissimo agglomerato di baracche realizzate con fango, rami e lamiere. Immagine che potrebbe essere ingenuamente confusa con il fascino del pittoresco ma che rimane intrisa da reale drammaticità di vita. Qui, come generalmente avviene negli insediamenti informali, “lo spazio non è un qualcosa che separa le pertinenze private ma è fortemente frammisto a queste. Per dire meglio, lo spazio privato e quello collettivo sembrano quasi fondersi, in un incessante processo d’invasione del secondo da parte del primo e viceversa. Lo spazio negli slums è lo spazio della collettività” (V. Fabietti, 2017). Residenza e commercio si ibridano lungo alcune strade mercato, dove portici precari in legno e lamiera con modesti banchi di vendita dei prodotti disegnano un paesaggio di colori, energico quanto precario.
Anche se “il mercato vero e proprio, una non-struttura semovente, è organizzato paradossalmente sui due fianchi della linea ferrata che attraversa e ha reso fotogenica Kibera” (C. Pozzi, 2017). Trasversale alla linea ferrata, una seconda infrastruttura, quella ambientale, costituita da un ramo del torrente Ngong, collettore principale delle fogne a cielo aperto che si ramificano lungo i viottoli fangosi e precari, anche a causa dell’alta piovosità che periodicamente inasprisce le malsane condizioni della baraccopoli. L’unico servizio che fornisce il comune di Nairobi è l’acqua, che però non arriva nelle baracche, ma è portata con delle tubature a punti di riferimento e poi venduta “al secchio” da alcuni abitanti della baraccopoli che fanno un contratto con il comune. Così i poveri la pagano più cara dei ricchi visto che l’acqua usata per riempire le piscine delle ville di Nairobi costa molto meno dell’acqua che si beve nelle baraccopoli.
Il Laboratorio Città Informale del Dipartimento di Architettura di Pescara è entrato con coraggio in questo luogo estremo, interrogandosi su possibili strategie da attuare per la rigenerazione, attraverso un approccio umanistico che recuperi il valore spaziale del progetto come strumento di educazione e di costruzione di una nuova coscienza dell’abitare; ciò non vuol dire infiltrare negli insediamenti informali tradizioni e usi occidentali o ordinari, ma accompagnare l’identità della comunità verso una dignità urbana che rispecchi valori universali, sociali e ambientali. Tendendo quindi alla costruzione di una comunità simbiotica, in grado di restituire all'ambiente la totalità dell'energia che gli sottrae, come l'albero le cui foglie prodotte grazie ad energia solare ritornano al suolo formandone il nutrimento (G. Clément, 2014). Gli approcci e i temi possono essere molteplici, ma un aspetto sul quale è doveroso porre l’attenzione è il senso culturale/educativo che il progetto di architettura - come atto critico in un contesto fragile – deve esprimere. Sono ormai tanti i progetti che hanno lavorato in questa direzione, alcuni meritevoli di attenzione, come le architetture di Giancarlo Mazzanti per Medellin, la Floating School realizzata a Makoko dallo studio NLÉ, la scuola edile realizzata da Edoardo Milesi & Archos ad Haiti, etc.
Opere significative perché sistemi aperti e fondativi di un processo di trasformazione che va oltre la fisicità dell’architettura, la cui bellezza non è fatto meramente estetico ma si realizza nella capacità di adattarsi a una necessità sociale; ponendo domande nuove e più profonde, preparando la comunità all’uso delle proprie risorse (E. Milesi, 2017), acquisendo le capacità necessarie per andare nel futuro in maniera autonoma. Entrare a piedi nudi nei luoghi dell’Inferno per ascoltare e carpire possibilità altre è un paradosso che testimonia la necessità di ritornare a riflettere in maniera olistica sui paradigmi del progetto di città, lontani da influenze estetizzanti e alla moda che la cultura occidentale ha malamente generato e diffuso. Per riaffermare in maniera autentica una più profonda cultura dell’uomo attraverso il progetto e la condivisione di luoghi, spazi che contano.
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