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La storia non ha una fine


La storia è una linea retta che segna l’emancipazione dell’uomo da se stesso e dai limiti che la natura gli impone

Partiamo da una certezza, forse l’unica: la storia non ha una fine. In linea strettamente teorica essa non avrebbe nemmeno un fine, se non fosse che i soggetti che ne sono protagonisti (ognuno di noi, in forme e con ruoli diversi) non svolgono un ruolo neutro all’interno di essa, ma tentano di indirizzarla. Consapevolmente o meno, chi fa la storia agisce per il progresso del mondo, dando al significante “progresso” i significati più disparati. Vista come macrofenomeno, la storia è una linea retta che segna l’emancipazione dell’uomo da se stesso e dai limiti che la natura gli impone. Se però la si analizza in modo via via più dettagliato, ci si rende conto che il suo andamento non è regolare, ma non possiede alcuna logica predeterminata.

Se si segmenta la storia, appare evidente che essa si compone di arretramenti e capovolte che fanno da interstizi al processo evolutivo sopra esposto. L’idea di un avanzamento maestoso e inarrestabile dell’uomo e delle sue azioni, così come proposto dallo storicismo più ortodosso, si rivela perciò ingenua. La storia è un’entità complessa e problematica, vive di contraddizioni e di conflitti sociali, economici, territoriali e cetuali. Al suo interno esistono i momenti nobili e le pagine gloriose, che si affiancano agli errori e agli orrori. Nella storia ci sono la luce e il buio, il bene e il male, il progresso e il regresso. Vi è una significativa assonanza tra la fisica nucleare e la storia. Per quanto concerne la prima, fino agli esperimenti di Joseph Rutherford si pensava che la struttura dell’atomo fosse un pieno.

Esplorandola più a fondo, Niels Bohr, Arnold Sommerfeld, Werner Heisenberg e altri dopo di loro hanno invece mostrato che la materia si compone di pieni e di vuoti legati tra loro da leggi ancora oggi non del tutto comprese. Esattamente come nella storia, un esame problematico rivela la presenza (quando non la predominanza) di ciò che non ci si aspettava di trovare.

La materia è fatta anche di vuoto malgrado la tangibilità della sua consistenza, così come la storia è fatta anche di arretramenti nonostante sia innegabile che oggi l’uomo sia più colto, sano e libero di quanto non lo fosse uno, due o dieci secoli fa. Intesa come disciplina scientifica, la storia non è un racconto, anche se non può prescindere dalla dimensione narrativa. La storia – come insegna Benedetto Croce – è sempre e solo contemporanea poiché nasce da un interrogativo che ci poniamo oggi, anche se il tema può essere lontano nel tempo.

A ciò si aggiunga che la storia, come ebbe a dire Vittorio Foa, si fa soltanto con i se e con i ma. Essa non è data da uno o più episodi da raccontare, bensì si ricostruisce mediante un esame attento di quel che è avvenuto presupponendo sempre che la direzione che gli eventi hanno preso non era obbligatoria.

Ci sono sempre delle ragioni che sottostanno ai fatti così come si verificano. Rapporti di forza, convenienze, ragionamenti, visioni politiche e strategie fanno sì che il corso degli avvenimenti pieghi in un senso o in un altro. Ricostruire la storia significa sviscerare la problematicità degli snodi. Chi crede che la storia corrisponda a un destino ne rifiuta inconsapevolmente la dimensione culturale. È difficile, se non addirittura assurdo e privo di senso, svolgere il mestiere di storico. Come tutti sanno, ogni branca della scienza si basa sulla riproducibilità – in qualsiasi momento e in ogni condizione – dell’assunto che si è dimostrato.

La storia è l’unico ramo del sapere le cui conclusioni non possono avere un riscontro oggettivo. Detta in termini esemplificativi, è estremamente semplice dimostrare l’esistenza della forza di gravità: per farlo basta lasciar cadere un oggetto per terra. Al contrario, in nessun modo possiamo rivolgerci a Giulio Cesare, Carlo V o Giuseppe Garibaldi per sapere se quel che raccontiamo di loro corrisponda al vero.

La storia non può e non potrà mai dunque essere classificata tra le scienze esatte, eppure lo storico deve comprendere la realtà meglio di chi l’ha vissuta. Si tratta di un atto di presunzione? Probabilmente sì, ma questo gesto arrogante è il primo dovere deontologico dello storico e la ragione prima del suo mestiere. Proprio dalla distanza dagli eventi, dal non avervi partecipato in prima persona (o, in caso contrario, dall’essersi distaccato da essi) lo storico deriva la propria lucidità analitica.

Vivere circondati dagli alberi probabilmente ci consente di capire le peculiarità di ognuno di essi (il particolare, per così dire), ma l’essere immersi in quel contesto non permettere di cogliere l’aspetto essenziale della nostra esistenza (la questione generale), vale a dire che viviamo in un bosco. Ciò non accade perché noi siamo privi di sensibilità e intelligenza, ma in quanto da un punto di vista culturale ogni uomo ha bisogno di distanza per comprendere bene quel che vive. Si dice spesso che la storia è maestra di vita.

Si tratta di un assunto che possiede qualche ragione, ma ad avviso di chi scrive non coglie un aspetto. In sé, infatti, nessun ramo del sapere ha una funzione didattica.

Ogni messaggio ha due attori: un emittente e un ricevente. Si può banalizzare la ricostruzione scientifica nella stessa misura in cui si può banalizzarne la lettura. Ecco allora che la storia insegna, come scrisse Gramsci, ma non ha scolari.

Chi pensa che la storia si ripeta tale e quale a cicli più o meno regolari cade in errore. Non ci troviamo di fronte a un oroscopo o a un congegno perfetto, bensì a un mare agitato le cui onde si somigliano ma non sono mai identiche tra loro. La lettura della storia non offre ricette certe o soluzioni salvifiche per affrontare il domani. Porsi dinanzi alla storia facendo di essa un feticcio salvifico costituisce l’errore uguale e contrario del rifiuto di considerarla. La storia non è mai banale, non è amica né di chi la scrive né di chi la legge. Non ci si deve mai fidare di essa poiché è in perenne mutamento.

Non vedremo mai un nuovo ieri, ci troveremo davanti a infiniti domani. Trattare la storia alla stregua di un oracolo è il modo migliore per renderla inutilizzabile all’acculturazione umana. La storia richiede un metodo che impone di leggere tra le righe e soppesare ogni parola. Se la lettura di un libro di storia ha fornito delle risposte, allora non è servita a nulla e forse si è rivelata perfino controproducente. Se ha invece suscitato nuove domande che prima non era nemmeno immaginabile porsi, quel libro ha raggiunto il suo scopo.

Una storia che fornisse certezze sarebbe autoconsolatoria. Una storia che invece instilli il dubbio è ciò che serve per collocarci nello spazio e nel tempo, aprendoci la porta della conoscenza.

 

Chi è | Saverio Luzzi

Dottore di ricerca in Società, politica e culture dal Tardo medioevo all’Età contemporanea (Università di Roma “La Sapienza).

È autore di Salute e sanità nell’Italia repubblicana (Donzelli 2004) e de Il virus del benessere (Laterza 2009). Attualmente sta lavorando a una ricerca sulla storia del nucleare e insegna italiano, storia e geografia all’interno della Casa circondariale di Terni. Uno dei fondatori della Scuola permanente dell’abitare, del cui comitato scientifico fa parte.

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© Edizioni Archos

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