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- Paolo Puppa
- 1 ora fa
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A proposito del libro di Lorenzo Renzi, “La strada di Malo. Opera e vita di Luigi Meneghello”

Luigi Meneghello
Il titolo di questo studio, “La strada di Malo”, esala una fragranza proustiana, allusiva a “La strada” di Swann. E l’attacco del temporale che apre il primo romanzo di Meneghello si rapporta alla madeleine della Recherche. Per sbalzi successivi, Renzi, già autorevole cattedratico di filologia romanza nell’Università patavina, si occupa del suo illustre concittadino, spinto da “vicinanza e simpatia” non solo per l’autore contemporaneo ma per “un classico della narrativa italiana del Novecento”.
Nell’ultima parte del libro, Meneghello and me/e mi, si azzarda a configurarne un confronto linguistico, lui vicentino ma con madre comasca e padre di Capua. Diglossie parentali che lo rendono nei confronti del dialetto territoriale un “parlante evanescente”, misto di conoscenza passiva e di incapacità a parlarlo. Se, come promette la cover, opera e vita fluiscono nel volume con agilità, l’ammirazione struggente evita l’agiografia per onestà intellettuale. Ad esempio, ne coglie l’umor nero, e forse il pur solido matrimonio con Katia, l’ebrea voivodina di lingua ungherese coi genitori travolti dalla Shoah, ha contribuito a tale mood nascosto. Analogamente, prende le distanze dalle traduzioni della poesia inglese, Shakespeare e Yeats, nel dialetto vicentino operate in "Trapianti".
Per Meneghello, invece, il dialetto, mescolato magari a forme frante e oniriche, consente un avvicinamento alla macchina witty originale, più di quanto non sia concesso all’italiano. E ancora Renzi ne mette in luce la sua indifferenza verso la linguistica strutturale (nonostante la sua amicizia fraterna con Giulio Lepschy, collega a Reading dal ’75 e autore del manuale apposito, definito in maniera graffiante bibbia e bignami, così come la dialettologia pura. Manca altresì qualsiasi interesse per l’analisi teorica e per la filosofia del linguaggio, di gran voga in Inghilterra negli anni ’60 (vedi la sua diffidenza verso Wittgenstein).
Quel che preme allo scrittore è solo la parte idiomatica della lingua, quello che non passa nelle traduzioni, tutta la produzione viene analizzata, dall’esordio stordente, “Libera nos a malo” del 1963, ambiguamente antifrastico perché “ci si deve ricordare di Malo”, immersione fisiologica nella “grande famiglia allargata” del mitico paesino, al citato “Trapianti” del 2002. Vi include pure i tre volumi, datati 1999-2001, di “Le carte”, e le nuove dell’Apprendistato del 2002, che lo scrittore pensava di eliminare, preziosa miniera di frammenti anche enigmatici, di taccuini, simili a quelli usati anche da D’Annunzio (di cui il padre era stato occasionale chauffeur nel tempo della Grande Guerra) e da Pirandello.
Da “Le carte” estrapola spunti e modalità espressive. I vari titoli compongono il mosaico di una “grande autobiografia”, man mano venuta su nell’esilio inglese, iniziato nel settembre del 1947, a venticinque anni, e tutta concentrata sul territorio veneto. Resta 33 anni oltre Manica, sorta di purgatorio espiativo, esposto in “Il dispatrio” del 1993, a liberarsi dai turgori ideologici, l’adesione adolescenziale al fascismo (due amici rimasti dall’altra parte e finiti tragicamente, rivivono qui in stralci epistolari), lui il più giovane littore d’Italia.
Si pensi alla canzonaccia “Alarmi siàn fasisti, abasso i comunisti”, che l’io narrante al plurale mormora saltando sui letti nell’incipit del romanzo su Malo. E poi la resistenza e la breve militanza nel Partito d’azione, prossimo a sciogliersi. Percorso rivissuto tra piccoli maestri, epopea minimalista della Resistenza sull’alto vicentino del 1964 e il mirabile “Fiori italiani” del 1976, sulla pedagogia grottesca del regime, in cui l’io si mette in terza persona. Di politica non se ne occuperà più per il resto della sua scrittura.
Il romanzo d’esordio trasuda culto per l’amicizia, per la piccola compagnia paesana, retta dai legami del corpo. E i sodali di quell’aura lontana, cresciuti e divenuti adulti nella distanza, sono i primi destinatari delle sue pagine, ben motivanti nel ritmo discorsivo. Il volume raccoglie pure una serie di lettere inedite, curate da Filippo Cerantola, tra cui Neri Pozza artista editore.
Ebbene, sono però le filastrocche geniali che siglano “Pomo pero” del 1974, e l’annesso congedo in “Ur-Malo”, la parte calda del volume, il “nucleo embrionale” della parlata di Malo, dove si parla una lingua che non si scrive. Costituiscono una cascata frenetica di scurrilità desunte dal vocabolario terragno-carnevalesco, ridda di ingiurie affettuose familistiche.
Ecco allora a grappoli gli allitteranti con interne assonanze: “busiàro baléngo viliaco raméngo/paiasso porsèlo boaro buèlo/semòto talòco macaco bauco/sempióldo pandòlo sucólo fabiòco”. Da qui, il tripudiante inno allo sporco, l’onto, che preme contro le barriere del decoro, voglioso di essere pronunciato, in una regressione a livello del petèl di Zanzotto, tra ludismo e luddismo infantile.
Intanto fioccano blasfemie, nell’interferenza eufemistica di Zio al posto di Dio. Che l’oralità sia la risonanza più appropriata lo testimonia la lettura integrale in 14 puntate, a più voci, tra cui Marco Paolini da sempre devoto allo scrittore, avvenuta nell’ex filanda del paese, dell’intero “Libera nos a malo” nell’estate del 2003. Del resto, per la sua riscrittura del meneghelliano “Libera nos a malo” nel 1989, centrato sulla scoperta degli ”atimpuri”, della bici, delle donne, il regista Vacis realizza una macchina per sprigionare sulla scena una nebbia padana, sul metro del felliniano “Amarcord”.
Ora, il padre di Meneghello, trasportatore di autocorriere, e verso cui confessa di non nutrire odi edipici, sembra anticipare il gesto del figlio scrittore che trasferisce in italiano grumi dialettofoni, quasi innesti di piante effettuati da un contadino, con effetti di spiazzamento, a volte anche di difficile ricezione. Intento salvifico, in quanto si tratta di “parole del passato minacciate dalla modernità”. Ma tutto ciò produce piacere in chi legge, mentre prende aria la frase nel suo insieme.
Intertestualità in azione pure nei coevi Gadda, Pasolini o Mastronardi, per citare scritture multiple a mimare il caos della vita. Nel 1963, assieme a “Libera nos a malo” esce pure “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg. Alcuni lemmi della triestinità ebraica, il papà Giuseppe Levi di Natalia, quali “potacci” nel significato di pasticci, spuntano in entrambe le saghe del quotidiano domestico. Ma nel caso di Meneghello, l’italiano viene ibridato dalla contiguità almeno di due dizionari, quello di Malo e l’inglese, con prestiti tra i vari poli del triangolo analizzati con cura da Renzi.
Nell’Ateneo di Reading, Meneghello costruisce la sua carriera: prima la borsa di studio ricevuta dal British Council, poi membro dello staff, quindi full professor, restando anche scrittore “per la fortuna di noi lettori”. Allo stesso tempo impara ad apprezzare la nebbiosa Inghilterra della tradizione liberale, dei rituali del tè, dei tascabili Penguins, salvo il dubbio di sopravvalutare quel mondo. In cambio, nell’ultimo intervento nel 2007 a Palermo, poco prima di morire ribadisce che il genio della lingua che lo mette in rapporto col cuore oscuro della realtà si sprigiona in particolare nel versante poetico.
Ma il dialetto di Malo, colle sue storpiature e le sue bizzarre morfologie, come si evince in “Maredè, maredè” del 1991, esibisce una veste anche parodica. La centrifugazione nella pluralità dei modi espressivi, tra paese e contado, tra generazioni, anagrafi o altimetrie diverse, o strati sociali differenziati, varianti tra un parlante e l’altro all’interno di una stessa famiglia, rende insomma di fatto impossibile una langue normativa. Resta a conforto l’arte della scrittura.