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Petrolio e fango

I disastri ecologici e sociali irreparabili nel Delta del Niger sono uno degli esempi più fulgidi di sviluppo in-sostenibile, causato dall'affannosa rincorsa alla modernità industriale, perseguita nonostante l’assenza dei presupposti che avrebbero dovuto innescarla


Riflesso nel fiume inquinato dal petrolio, Kegbara Dere, Delta del Niger (Nigeria) | Foto © Luka Tomac/Friends of the Earth International


Una fitta trama di corsi d’acqua dolce, circondata da impenetrabili reticoli di mangrovie e foreste alluvionali millenarie. Difficile non rimanere affascinati da quel labirinto di torrenti e terre fertili che doveva essere, un tempo, il Delta del fiume Niger. Tra i primi esploratori che riuscirono a raggiungere quel territorio remoto, vi fu lo scozzese John Lander, che nei suoi resoconti di viaggio pose più volte l’accento sul senso di mistero che avvolgeva il Niger. Un’arteria d’acqua lunga più di quattromila chilometri, che solca da nord a sud la costola occidentale del continente africano. Dopo averla navigata per più di cento chilometri, Lander giunse finalmente alla sua foce. Era il 1831, e il Delta del Niger doveva apparire come un territorio rurale e incontaminato, abitato solamente da piccole tribù di pescatori.


“Le sponde del fiume sono colme di vegetazione lussureggiante, con una varietà di alberi e piante che si estendono fino all’orizzonte, creando un’immagine di bellezza naturale senza tempo”. Così scriveva Lander nel suo resoconto di viaggio, alludendo all’unicità del paesaggio fluviale nigeriano. A un ipotetico viaggiatore contemporaneo, il Delta del fiume Niger apparirebbe molto diverso rispetto ai tempi degli esploratori britannici. I torrenti cristallini si sono progressivamente trasformati in paludi di petrolio fangoso, le mangrovie avvelenate faticano a prosperare come un tempo, e della ricca fauna che popolava il territorio non è rimasta che qualche traccia sbiadita. Nessuna “immagine di bellezza naturale senza tempo”, ma solo vestigia di morte e di desolazione.


Fuoriuscita di petrolio nella comunità di Goi sul Delta del Niger (Nigeria) | Foto © Luka Tomac/Friends of the Earth International


È difficile comprendere le dinamiche che hanno portato, negli anni, a questo grande disastro ambientale. Difficile intuirne le cause, difficile spiegarne le responsabilità. L’unica certezza è che nel Delta del Niger hanno perso tutti: le compagnie petrolifere, le popolazioni locali, il governo nigeriano… questa è una di quelle storie che non hanno vincitori, ma solo sconfitti. Per capire quanto è accaduto, è opportuno compiere un breve passo indietro, e tornare alla seconda metà degli anni Cinquanta, quando la Shell diede inizio alle attività di ricerca ed estrazione petrolifera nella regione del Delta del Niger. Le attività petrolifere produssero fin da subito dei danni ambientali notevoli, e in breve tempo stravolsero il tessuto socio-economico delle popolazioni locali, che fino ad allora avevano vissuto per lo più grazie ad attività di sussistenza come la pesca.


A causa della negligenza della Shell e delle altre compagnie petrolifere (tra cui anche l’ENI) che nel frattempo si erano inserite nella regione, si verificarono negli anni numerosissimi sversamenti di petrolio, che avvelenarono quasi del tutto le acque del Delta. All’inizio degli anni Novanta, dopo più di trent’anni di estrazioni e sversamenti, la vita delle comunità autoctone era divenuta pressoché impossibile. La frustrazione delle popolazioni locali si tradusse in un grande movimento di protesta, che vide nell’intellettuale pacifista Ken Saro-Wiwa il suo leader più carismatico.


Fuoriuscita di petrolio nella comunità di Goi sul Delta del Niger (Nigeria) | Foto © Luka Tomac/Friends of the Earth International


Egli fondò il Mosop (Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni), attraverso il quale riuscì ad ottenere un’ampia risonanza internazionale. “Noi siamo di fronte alla storia. Io sono un uomo di pace, di idee. Provo sgomento per la vergognosa povertà del mio popolo che vive su una terra generosa di risorse; provo rabbia per la devastazione di questa terra. Il mio popolo deve riottenere il diritto alla vita”. In odor di Nobel per la pace, Saro-Wiwa venne arrestato dal governo nigeriano, dietro la falsa accusa di istigazione all’omicidio di alcuni oppositori del Mosop. Dopo un processo frettoloso, il leader degli Ogoni venne condannato a morte e giustiziato.


A poco servirono lo sgomento della comunità internazionale e le opposizioni delle associazioni umanitarie. Da quel momento in poi, la situazione nel Delta si fece via via più disastrosa: i militanti del Mosop abbandonarono le reti da pesca e imbracciarono le armi, dando vita ad azioni di guerriglia volte per lo più al danneggiamento delle infrastrutture petrolifere. Le bande armate agivano con un modus operandi preciso, che consisteva nel sabotaggio degli oleodotti e nella raffinazione clandestina del greggio rubato. Inutile precisare che la lavorazione del greggio, che avveniva in raffinerie di fortuna, nascoste tra la folta vegetazione del Delta, produsse delle conseguenze ancora più tragiche sull’ecosistema della regione. Dal canto suo, la Shell si impegnò in un’opera di riconciliazione simbolica, versando un modesto risarcimento di 11 milioni di dollari alla comunità Ogoni.


Kegbara Dere, Delta del Niger (Nigeria) | Foto © Luka Tomac/Friends of the Earth International


Al giorno d’oggi la situazione appare, almeno nelle sue linee generali, immutata. Da questo riassuntivo, ma necessario, sommario storico emergono diversi paradossi, che si ripropongono in modo quasi paradigmatico in moltissime aree del continente africano: abbondanza di materie prime e assenza di un apparato industriale in grado di valorizzarle, Pil alti e fame diffusa, governi ricchi e popolazioni povere. In Nigeria (la prima economia dell’Africa) vivono più di 70 milioni di persone in condizioni di povertà estrema, le quali vanno a costituire, secondo le stime più recenti, circa l’11% dei “poveri del mondo”. Una cifra spaventosa. C’è un problema di redistribuzione della ricchezza? Sicuramente sì, ma c’è anche dell’altro. È impossibile non biasimare l’atteggiamento di alcune compagnie occidentali, che sembrano non aver ancora abbandonato del tutto quella logica predatoria che caratterizzava le vecchie dinamiche coloniali. In questo senso, ha fatto molto discutere l’ultima dichiarazione della Shell, che nel febbraio scorso, senza presentare alcun programma di bonifica della zona, ha annunciato il suo ritiro dal Delta del Niger.


Altrettanto paradossale appare l’atteggiamento delle popolazioni locali, che da più di vent’anni si sono impelagate nella lotta armata senza raggiungere alcun risultato tangibile, se non quello di peggiorare ulteriormente le condizioni del proprio territorio. Più che da una visione lucida e programmatica, la guerriglia delle tribù del Delta sembra esse alimentata esclusivamente da un miope e rabbioso sentimento di rivalsa, del tutto giustificabile, sia chiaro, ma a dir poco controproducente. La cifra caratteristica di questa vicenda è il controsenso: ogni attore, in modo più o meno inconscio, ha finito per agire contro i propri interessi. Ciò che si è andata ad innescare negli ultimi decenni è una pericolosa spirale di autodistruzione reciproca, in cui tutti, seppur in misure diverse, hanno perduto qualcosa.


Fuoriuscita di petrolio nel villaggio di Gboro nella comunità di Kegbaradere | Foto © Luka Tomac/Friends of the Earth International


Al termine di ogni storia, l’istinto umano è portato, per sua stessa natura, a individuare eroi e antagonisti, vincitori e vinti, ma per restituire un’immagine fedele della questione, è essenziale svincolarsi da logiche polarizzanti, e ammettere che la complessità di un evento, alle volte, impedisce la formulazione di un giudizio netto. L’unica cosa possibile, arrivati a questo punto, è avanzare alcune osservazioni, dietro le quali – è bene precisarlo – non si celano altro che interrogativi, ai quali sarebbe per altro difficile fornire delle risposte definitive. In primo luogo non può che risaltare all’occhio l’ambiguità che, in questa vicenda, ha connotato il significato della parola “progresso”. Un concetto che, per trovare una sua qualche forma di attuazione, non può essere calato dall’alto, ma al contrario deve levarsi dal basso, e trovare le sue condizioni di esistenza nel tessuto economico e sociale preesistente.


Kegbara Dere, Delta del Niger (Nigeria) | Foto © Luka Tomac/Friends of the Earth International


Il Delta del Niger, in questo senso, è uno degli esempi più fulgidi di sviluppo in-sostenibile: la affannosa rincorsa alla modernità industriale, perseguita nonostante l’assenza dei presupposti che avrebbero dovuto innescarla, non ha prodotto altro che disastri irreparabili. È per questo motivo che l’inscindibile binomio sviluppo-sostenibilità dovrebbe essere applicato sempre in modo integrale, e forse con una maggiore attenzione da riporre verso il secondo termine dell’equazione. Ma in ogni caso, quando si affrontano questi argomenti, si ha quasi il dubbio che lo sviluppo sostenibile, di cui si discute ormai da anni, non sia che un lusso teorico tutto occidentale.


Ed è qui che entra in gioco l’ultima osservazione, quella che più ci riguarda. Leggere le questioni del Terzo Mondo attraverso la lente ottica occidentale può dare luogo a interpretazioni distorte, che rischiano di scivolare non di rado in facili considerazioni retoriche. Affrancarsi dalla propria impostazione d’animo, che sia essa di stampo paternalistico o terzomondista, è un esercizio mentale complesso ma quantomai indispensabile. Per tentare di comprendere il Terzo Mondo occorre averne una percezione realistica, tridimensionale, che tenga conto in primo luogo del fattore umano e ambientale. Il Delta del Niger, in questo senso, si configura come l’esempio negativo per eccellenza, il modello da non seguire, la tragedia da non riscrivere.


Eric Dooh, un querelante nel caso giudiziario intentato da quattro agricoltori nigeriani e da Friends of Earth Netherlands contro il gigante petrolifero Shell | Foto © Luka Tomac/Friends of the Earth International

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