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Umanità norvegese. Il carcere di Halden


La seconda più grande prigione della Norvegia che utilizza l'architettura, coniugata con l'attenzione ai diritti umani, per redimere e riabilitare i detenuti

I più interessanti tentativi di apertura delle carceri italiane sono stati fatti negli ultimi decenni solo in senso metaforico, con l’avvento del teatro e del cinema all’interno di carceri-fortezza, come quello di Volterra, dove è nata e cresciuta la sperimentazione teatrale diretta dal fondatore della Compagnia della Fortezza che “da anni lavora per la costruzione di una compagnia stabile: per un teatro stabile in carcere.

Nessuno aveva mai pensato prima di trasformare un carcere in un teatro. Nessuno ci aveva mai pensato in una forma così compiuta, immaginando in modo strutturato che la fabbrica del male, la fossa dei serpenti, il pozzo infernale, la galera, o comunque si voglia definire un carcere, potesse avere un'altra faccia che contraddicesse e mettesse in discussione il pensiero comune sulla funzione e le finalità di un istituto di pena. Nessuno aveva mai osato credere che la forza del teatro potesse realmente trasformare un luogo.

"E se invece...", quindi, è la parola d'ordine per Armando Punzo e per tutta la realtà che gira intorno alla Fortezza. E se invece il Carcere si trasformasse in un castello incantato e misterioso, a volte grottesco, altre divertente, altre ancora stimolante, per tutti, non solo per chi lo abita con forza. E se diventasse un "teatro d'arte per tutti" recuperando il senso di ognuna di questa parole?”

Questa splendida metafora-sogno, che ha generato anche il film “Cesare deve morire” dei Fratelli Taviani, con la partecipazione dei detenuti di Rebibbia, vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino 2102, si trasforma in realtà con la costruzione del carcere di Halden, la seconda più grande prigione della Norvegia, con una capacità di 252 detenuti: la realizzazione, curata direttamente dal governo norvegese, ha richiesto dieci anni di tempo e una spesa di 1,5 miliardi di corone norvegesi (€ 231.000.000); l’insediamento si sviluppa su 30 ettari di foresta in leggera pendenza. Il progetto dell’architetto Erik Møller, leader dello studio HLM Arkitektur, prova a tenere in equilibrio ossimorico alcuni contrasti: duro vs morbido, chiuso vs organico, pena vs riabilitazione. Quest’ultima parola è comunque il centro del progetto riformativo di questo carcere singolare e innovativo; tutto le gira intorno, strutturando nuovi rapporti con il luogo e con il tempo, estraendo i detenuti da una sorta di campana subacquea atopica e atemporale.

Il luogo è la natura di una foresta scandinava, connotata dalle presenze arboree e da una parete di roccia alta 8 metri: un paesaggio all’interno del quale i reclusi possono, anzi devono, vagare.

Ognuna delle singole funzioni della prigione è situata in un edificio dedicato sulla collina, all’interno del bosco. Rispetto al tempo, particolare enfasi è data dalla interazione tra il personale e i detenuti, rendendo lo staff in grado di sostenere e motivare i detenuti a sviluppare una routine quotidiana con ritmi che ricordano la vita, giorno per giorno, al di fuori della mura della prigione: la metà delle guardie carcerarie, che, tutte, non portano armi da fuoco, sono donne.

Immediatamente dopo il cancello che perimetra la prigione c’è la foresteria, edificio che comprende l’amministrazione e l’accoglienza. I visitatori vi arrivano direttamente e incontrano un funzionario addetto alle relazioni, senza entrare in contatto con i detenuti e senza interrompere la routine quotidiana del carcere. Una volta all’interno, si intravedono i padiglioni che costituiscono questa innovativa casa di reclusione, caratterizzati da differenti immagini e materiali: a seconda del livello di sicurezza richiesto, su ogni edificio si alternano in copertura le tegole, sulle facciate legno non trattato e mattoni scuri, i cui colori sono ribaditi dalle rocce e dalla vegetazione circostanti.

Forme monolitiche semplici si relazionano in maniera autonoma con i magnifici alberi e il sottobosco ondulato. Le unità abitative presentano facciate semplici che riflettono le funzioni di base: ogni gruppo di 10 celle ha una cucina in comune e una sala comune con TV a schermo piatto e mini frigoriferi. Tutte le camere sono dotate di decorazioni artistiche individualizzate. Gli edifici sono collegati da una strada ad anello a senso unico.

I progettisti hanno disegnato lunghe finestre verticali per le camere per permettono l’ingresso della maggior luce solare possibile. Il centro culturale presenta a est l'area sportiva, delimitata da ripide pareti di roccia, che costituiscono il confine con una fitta boscaglia.

Non ci sono bar. Il Centro Culturale ospita uno studio di registrazione, un palazzetto dello sport con un palco e uno spazio sacro. Questo “santuario” è decorato senza simboli religiosi, al fine di soddisfare le diversità culturali dei reclusi. L'uscita, dalla facciata in vetro ad est del “santuario”, conduce ad una zona arredata con panchine in granito per raduni all’aperto. All'interno del centro culturale, la qualità della luce è data dalla posizione delle finestre e dei lucernari, che puntano a portare il paesaggio all’interno. L'ingresso alla sala per la didattica e i workshop avviene attraverso corridoi di dimensione generosa, dove una lunga ombra piove sul pavimento e sulle pareti. Non esistono finestre con sbarre, come d’altronde nelle altre parti del carcere.

La sicurezza è garantita dall'utilizzo di vetri antisfondamento, dalla sorveglianza delle aree esterne e da muri di cemento lunghi un chilometro e mezzo. Leggermente separata nel sud dell’insediamento è la pensione - l'edificio dove i detenuti possono ricevere le visite dei parenti.L'edificio è realizzato completamente in legno non trattato e, con il suo piccolo giardino e la sua posizione, fa pensare ai tipici rifugi norvegesi. Il rigore istituzionale è stato attenuato ulteriormente, per dare alla famiglia, e ai bambini, la sensazione di essere con il detenuto nell’ambiente più “normale” possibile. Are Hoidal, il governatore della prigione, spiega: “Nel sistema carcerario norvegese, c'è una attenzione ai diritti umani e il rispetto; noi non vediamo niente di tutto questo come insolito.

Quando i detenuti arrivano, molti sono in cattive condizioni. Vogliamo dare loro la fiducia attraverso l'istruzione e il lavoro e farli uscire come persone migliori.” Entro due anni dalla loro liberazione, il 20% dei detenuti norvegesi finisce di nuovo in carcere. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti, la cifra si aggira tra il 50% e il 60%, più o meno come in Italia.

Articolo pubblicato su ArtApp 16 | LA PRIGIONE

 

Chi è | Carlo Pozzi

Professore ordinario di progettazione architettonica presso la Facoltà di Architettura dell'Università G. D'Annunzio di Pescara. Svolge attività di ricerca specialmente sul tema del'Urban Sprawl longo la costa medio-adriatica.

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© Edizioni Archos

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