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Forma e Materia

L'uomo non può creare la materia, ma può manipolarla, modificarla, trasformarla e rigenerarla. Tuttavia, può inventare e creare la forma, che necessita della materia per esistere.


Thomas Heatherwick, padiglione UK all'Esposizione Universali di Shanghai del 2010. Foto © Llee Wu


“Chi fa arte deve pensare profondamente ai materiali che usa per poter esprimere un vero significato”.

Giuseppe Uncini (1929-2008)


Nonostante lo desideri e lo abbia sempre fortemente vagheggiato, all’uomo non è dato creare la materia. Certamente la può manipolare, modificare, trasformare, rigenerare, ma non la può creare dal nulla. La forma si. La forma, che per esistere ha bisogno della materia, l’uomo la può inventare, certamente creare. Lo fa continuamente e con essa stabilisce relazioni, linguaggi, trasferisce emozioni, le estrae dalla materia che a volte nasconde dentro di sé o addirittura non possiede.


Pare che l’unica cosa che differenzia veramente l’uomo dagli altri esseri viventi sia il linguaggio che nella scrittura diventa forma del pensiero. È il linguaggio che genera il pensiero complesso e non viceversa. Senza linguaggio non esiste filosofia, non si costruisce la scienza. Il linguaggio per l’uomo non è solo una forma di comunicazione, che per gli animali avviene attraverso i suoni, le espressioni, la mimica, la prossemica, la gestualità del corpo, ma il modo per costruire e trasferire cultura, per fissare concetti, per formulare regole e leggi, per elaborare la scrittura che è, appunto, la vera forma del pensiero. In linguistica esiste addirittura l’ipotesi dell’antropologo statunitense di origine tedesca Edward Sapir - la Sapir-Whorf  Hypothesis SWH - che afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Estremizzando potremmo dire che la forma espressiva, cioè linguaggio e scrittura, determinano il nostro modo di pensare: la forma influenza il contenuto, determina la materia. Del resto per Aristotele la materia per esistere ha bisogno della forma al punto che la materia prima, cioè la materia senza forma alcuna, è in termini rigorosi addirittura innominabile in quanto non è alcunché.

Insomma, l’uomo si destreggia piuttosto bene nella sfera dell’immateriale prendendosi lì la rivincita sulla creazione della materia. Quando Agostino definisce l’architetto “creatore di luoghi” -non inventore, ma proprio creatore, avvicinandolo così al supremo demiurgo- sa molto bene che sta parlando di miti, leggende, religioni, memorie, insomma di tutto quello che ha a che fare con la sfera dell’emozione e del sentimento che, certamente, si generano anche attraverso le relazioni con la materia, il suo odore, il suo colore, il suo gusto, e soprattutto la sua forma che i nostri cinque sensi assimilano, trasformano e ricordano.


L’arte e la matematica sono creazioni umane che hanno di base la fantasia e un linguaggio più o meno rigoroso, ma la successione numerica di Fibonacci non è un’invenzione, esiste in natura, l’uomo la scopre, la formula, la elabora in modo sintattico rendendola semantica. Oggetto reale e oggetto rappresentato non sono più la stessa cosa, la scoperta, attraverso l’atto umano dell’immaginare diventa così creazione. Per avvallare questo processo arriviamo a dare alla forma aggettivi che dovremmo riferire esclusivamente alla materia come resiliente, riferito ai materiali per la loro capacità di resistere agli urti senza spezzarsi, ma che intendiamo come la capacità di rimodellare la forma della città rispetto alla complessità e alla problematicità degli eventi.

 

Non potendo controllare la materia, l’uomo ha dato alla forma - che è in suo possesso - poteri esoterici, occulti, addirittura magici, potenti al punto di guidare le nostre scelte quotidiane, ma anche i canoni classici dell’architettura. Pare infatti che la forma di un corpo crei un campo di forza (o campo di forma) in grado di modificare per vicinanza, la qualità (e forse la sostanza) di elementi biologici. Resta questa una teoria indimostrabile razionalmente, eppure, a tutti noi architetti, maestri d’arte, artigiani è ben noto che la manipolazione, in grado di modificare forma e cromie, cambia l’energia del manufatto in un’energia diversa, al punto da dover senz’altro riconoscere che è l’energia sprigionata dal prodotto a determinare il suo valore sociale più della sua sostanza (materia). Qualcuno potrebbe tuttavia dire che anche la forma non è un’invenzione umana: l’uomo la prende dalla natura né più né meno come la materia e poi la rielabora facendola sua. Un buon esempio è dato dalla spirale -ispirata forse agli animali spiraliformi come le conchiglie o ai viticci della vite- che nella storia dell’uomo compare già nel Paleolitico superiore (38.000 anni fa) per poi, incredibilmente, diffondersi quasi contemporaneamente in quasi tutto il mondo abitato dal terzo millennio a.C.

Da quella forma l’uomo si è ispirato per realizzare opere d’arte come la Spiral Jetty di Robert Smithson, o anche architetture come la Solomon R.Guggenheim Museum di New York progettata da Frank Lloyd Wright, ma anche invenzioni ormai indispensabili e diventate di uso comune come le viti, le eliche e il cavatappi.

 

Molte epoche storiche sono contrassegnate dalla contrapposizione tra bisogno di materialità e di immaterialità, un dualismo nel quale l’uomo e soprattutto l’architetto si muovono incessantemente da sempre. Non è un caso che in momenti storici di grandi flussi immateriali - dei quali è impossibile avere il controllo - filosofici, religiosi, animistici, esoterici, misterici… che addensavano anche momenti recenti come gli anni ’90 (caratterizzati da teatralità spaziali, nel mondo dell’arte e dell’architettura) oggi si cerchino banalmente punti di riferimento apparentemente più concreti appoggiati alla materia e alla natura come grattacieli “verdi” o il ritorno alla pietra e al marmo profusi in improbabili pianelle a basso spessore (dette ricomposte) che di pietra e marmi hanno solo l’immagine fotografica, perfetta, ma vuota di significato e di energia. 


Quando accompagnavo Pinuccio Sciola nella sua terra sarda e gli chiedevo come facesse a scegliere le pietre giuste da far cantare con i suoi tagli e le sue incisioni, mi raccontava che la cosa era abbastanza semplice perché quei massi, spesso isolati, lo chiamavano.

La pietra così detta da taglio utilizzata nelle antiche fabbriche romaniche costruite dall’intera comunità, possiede proprietà che vanno ben oltre la forma che l’uomo riesce a conferirle. Le pietre, così come immagazzinano il calore del giorno che rilasciano poi dopo il tramonto, conservano la memoria di quanto accade attorno a loro e in qualche modo ce la comunicano. Migliaia, milioni di vite che hanno impregnato i muri di chiese, palazzi, castelli, templi hanno sempre qualcosa da raccontarci e per questo le scuole di restauro ne impediscono a ogni costo l’asportazione. Scegliere tra quali cose farci raccontare liberandoli da una complicata stratificazione di secoli è sempre una scelta difficile e controversa. Per lo stesso motivo è insensato, dopo la perdita incidentale del prodotto riproporlo con la stessa forma, ma con materiali per tipologia o consistenza diversi dagli originali nel così detto falso storico.

L’energia del ferro dipende dalla provenienza minerale alla quale si aggiunge l’energia del fuoco e le diverse fasi del lavoro dell’uomo che avviene anche a grandi distanze. Non è esattamente così per il legno la cui vita scorre in modo più evidente perché la sua trasformazione è rapida e continua, bloccarla con vernici e agenti chimici è come togliergli la possibilità di comunicare con noi, di raccontarci la sua provenienza, da quale tribù di alberi proviene (ci direbbe Stefano Mancuso).


Il materiale che per le sue proprietà plastiche, più di ogni altro, fonde assieme materia e forma, e che quindi rischia di essere confuso con una creazione umana è certamente il calcestruzzo, un conglomerato di inerti e leganti di diversa natura e origine che dallo stato fluido si solidifica rapidamente attraverso reazioni chimiche e fisiche in casseforme di svariate dimensioni e fogge. Il materiale d’eccellenza degli architetti razionalisti e modernisti che lo utilizzavano anche al grezzo e che ha finito col generare nella prima metà del secolo scorso un vero e proprio stile: il brutalismo che dal suo termine francese prende il nome (béton brut). Il brutalismo è caratterizzato dalle strutture in calcestruzzo che rimangono a vista, nude, senza ornamenti, in cemento grezzo appunto. Riconoscendogli l’utilità pragmatica della materia prima è forse un inconscio tentativo di ambire alla sua creazione. Non sappiamo se furono veramente gli antichi romani a inventarlo, certamente sono stati loro a diffonderlo nel mediterraneo e nel mondo occidentale. Opportunamente e tecnologicamente modificato è dal secolo scorso il materiale più impiegato dopo l’acqua. La produzione mondiale annua di cemento fra il 1950 e il 2019 è passata da meno di 200 milioni di tonnellate a 4,4 miliardi, questo, al di là degli aspetti ecologici -ogni tonnellata di cemento prodotto rilascia una tonnellata di CO2- ha certamente contribuito a cancellare la peculiarità locale delle costruzioni che una volta utilizzavano i materiali del posto adattando la tecnica costruttiva alle qualità materiche che la natura era in grado di offrire nelle vicinanze.

© Edizioni Archos

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