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La prigione di merletto


Detenere sembra essere proprio quel che si conviene a un reggiseno, come una corazza, un legame di dipendenza psicologica tra il carceriere e la carcerata

Poster pubblicitario di un reggiseno 1966

Strano pensare a una prigione da cui si entra e si esce, ogni giorno, per quasi tutta la vita. Almeno da quando inizia a intravedersi quel qualcosa che è stato stabilito sia bene essere detenuto.

Una prigione le cui sbarre sono in morbido elastico, magari colorato, o in pizzo e merletto. Sbarre che possono essere oltrepassate scostandole delicatamente, anche solo con la punta delle dita. Sempre che sia una donna a provarci, perché se a tentare l’evasione è un uomo, deve essere uno piuttosto avvezzo a frequentar galeotte, altrimenti l’operazione diventa rocambolesca.

L’esperienza insegna che non si può ridere o interrompere le maschili manovre. Neanche tentare qualche diversivo, meno che mai intervenire dimostrando che non c’è nessuna combinazione da trovare, nessuna sbarra da forzare, da tirare (e bruscamente lasciare), scuotere o scardinare.

Pena, l’inutilità della fuga. Detenere è possedere, ma anche tenere, trattenere e contenere. Detenere sembra dunque essere proprio quel che si conviene a un reggiseno. La moda forse non ha creato nessun altro indumento così intimamente legato alla femminilità, così carico allo stesso tempo di erotismo e di pudore. All’immaginario del mio tempo appartiene liconico reggiseno di Madonna per il Blond Ambition Tour del 1990, creato per lei da Jean Paul Gaultier, che ridisegnò le linee e i volumi dell’intimo da maggiorata per farne un manifesto di provocante sensualità. Così come il primo reggiseno push-up, di Wonderbra, indossato da una maliziosa e sfrontata Eva Herzigova, che nel 1994 campeggiava su grandi cartelloni pubblicitari. Guardami negli occhi, ho detto negli occhi diventò una frase simbolo.

Ne fa parte anche il casto reggiseno nero firmato da Dolce & Gabbana, che in una pubblicità Monica Bellucci lascia cadere tra i fichi d’India di una Sicilia d’altri tempi, così che l’uomo che desidera possa averlo per sentirne il profumo. Niente rivela una donna come il reggiseno che veste, nessun capo può diventare per lei un complice perfetto come un reggiseno che nessuno vede. Eppure indossandolo molte di noi si sentono prigioniere, come private di una libertà.

Non è (solo) una questione di elastici, ferretti e gancetti, né tantomeno la voglia di esibire e di farsi guardare. Non siamo più le donne intrappolate nel corsetto che nel 1907, quando il reggiseno fece la ufficialmente la propria comparsa su Vogue Usa, guardarono a quella fascia di tessuto rigido con due strisce di stoffa a fare da spalline come a un indumento rivoluzionario.

Non siamo più le femministe che identificarono nel reggiseno l’oggetto simbolo di tutte le gabbie sociali da cui volevano uscire denudandosene. A farci sentire oggi prigioniere del reggiseno è qualcosa di più sottile, che corre lungo i laccetti, si insinua nella stoffa, lascia a sera la propria impronta sulla pelle della schiena e delle spalle.

È quel qualcosa – chiamatela estetica, costume o semplicemente convenzione – che induce le maggiorate a comprimere, contenere e schiacciare e le meno dotate a esaltare, valorizzare, sostenere. Curiosamente dietro un reggiseno contenitivo, così come dietro a uno imbottito, ci sono gli stessi ovvi motivi, seppure diametralmente opposti, e donne impegnate nel continuo tentativo di sovvertire quel che Natura ha disposto. Se così è, basta toglierlo, penseranno gli uomini.

E infatti le donne lo tolgono, per abiti audaci che stridono con l’idea di costrizione che il reggiseno incarna, non appena varcata la soglia di casa, durante quel tempo sospeso, onirico e buio che è la notte. Lo tolgono quando si sentono sexy e quando si sentono al sicuro, nascoste dallo sguardo proprio, sempre troppo severo, e altrui. Il resto è un braccio di ferro tra sentimenti opposti, un gioco di forza tra due contendenti, la libertà e il condizionamento, che non ha mai, tranne rari casi, un vincitore assoluto.

Tante donne dicono di odiare il reggiseno, di mal sopportare di indossarlo, di sentirsi così oppresse da quei pochi centimetri di stoffa che considerano lo stare senza come il massimo della libertà, di sentirsi leggere come una farfalla nel non averlo addosso. Al contempo non concedono a loro stesse di uscire da questa prigione.

Non indossarlo in pubblico creerebbe loro disagio, attirerebbe sguardi maschili non desiderati e giudizi non richiesti, per alcuni lavori minerebbe addirittura la credibilità professionale. Il reggiseno come una corazza, pesante da portare ma indispensabile per proteggersi.

Meglio dunque chiudersi dentro le sbarre-laccetti che provare imbarazzo se dagli abiti s’intravedesse del seno qualcosa di più della sua forma, che il fastidio di non essere guardata in volto quando si parla, che l’inadeguatezza per un seno che da solo non arriverebbe alla giusta misura – giusta secondo chi e per cosa è un altro lungo discorso. S’innesca così un legame di dipendenza psicologica tra il carceriere e la carcerata, una sorta di Sindrome di Stoccolma declinata in intimo vestire, che può superare la sottomissione volontaria per spingersi oltre.

Può arrivare a sfiorare l’amore. Un amore che, nell’essere segreto e celato, diventa più forte: s’indossa un reggiseno sexy per sentirsi meglio con sé stesse, più belle, più audaci. Per piacerci di più, anche se quel reggiseno rimane nascosto sotto gli abiti. Lo si indossa per sé, perché con un alleato che sta proprio lì, vicino al cuore, ci sentiamo più sicure.

Allora ben si spiegano i reggiseni di ogni tipo: fascia, triangolo, push-up, brasserie, balconcino e balconetto. Morbidi o imbottiti, ferretto o elastico. Pizzo, cotone, seta, lycra, raso, tulle, viscosa. Bianco o nero, fantasie e colori. Fiocchi, nastri, piume, cristalli, strass, paillettes. E molto altro.

Aprite un cassetto della biancheria di una donna, scoprirete un mondo e molto di lei. Con cosa si difende e con cosa azzarda. E saprete che da una prigione si evade sempre, anche solo con l’immaginazione.

Articolo pubblicato su ArtApp 16 | LA PRIGIONE

 

Chi è | Marta Coccoluto

Archeologa, con un PhD in Storia, Archeologia e Antropologia del mondo antico. Coordinatrice del parco archeologico di Baratti e Populonia (LI), cura i servizi al pubblico, i progetti di valorizzazione, gli eventi. Giornalista: Direttrice Responsabile del magazine the PLAYERS e dal 2014 ha una rubrica di moda, costume e società su EXTRA Magazine. Scrive come blogger su Il Fatto Quotidiano per Nomadi Digitali e di archeologia come freelance per riviste e progetti culturali.

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© Edizioni Archos

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