«È chiaro che compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili secondo verosimiglianza (eikòs) o necessità».
Aristotele
Civitas Veri, illustrazione di Bartolomeo Del Bene, 1609
Un figlio chiede al padre che cosa sia l'utopia. Il padre risponde: «È come l'orizzonte, quando tu fai un passo verso di esso, non ti avvicini, perché lui si allontana di un passo e così via». Il figlio chiede. «A cosa serve allora?» La risposta è stata: «Serve a camminare».
("Parole in cammino" di Eduardo Hughes Galeano)
L’utilizzo del termine Utopia risale all’opera dell’umanista inglese Tommaso Moro (Thomas More), in De optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia, uno scritto di progettazione politica, caratterizzato da una palese componente onirica, che evidenzia il carattere fittizio dell’opera. Una prospettiva verso la quale andare, modellando il nostro progetto ideale, anche se a livello semantico il termine ha assunto sia una connotazione positiva e salvifica, che quella della pericolosa follia.
L’Utopia, nonostante la sua etimologia incerta (eu-topia (luogo del bene) e ou-topia (non-luogo/nessun-luogo) benché di significato diverso si pronunciano allo stesso modo e Thomas More ne era strumentalmente consapevole) è il vero motore dell’arte, se per arte intendiamo la capacità visionaria di vedere oltre, libera dalle pressioni del mercato, dalle richieste della committenza, dai luoghi comuni, dalla cultura dominante e dai sentimenti correnti. Di fatto un pericoloso e temuto sradicamento.
Abbandonare certezze anche scomode è pur sempre affacciarsi all’ignoto.
Per l’architetto l’utopia è la strada da percorrere verso una riforma possibile. In questi termini rendere concreta l’utopia, dovrebbe essere il mestiere dell’architetto. La sua capacità di interpretare le sensazioni e i desideri, quasi sempre inconsci, e trasformarli in un progetto (pro-jecto), è solo una parte del suo compito.
Riuscire a entrare a farne parte e creare le condizioni perché il sogno si realizzi, trasforma l’artista in architetto. L’artista, infatti, può permettersi di fermare la sua attività nella proposta utopica; l’architetto deve renderla concreta mediante un processo condiviso affinché il suo committente se ne appropri definitivamente e la realizzi.
È così che l’architetto rende concrete le utopie mediante la trasformazione dei non luoghi o dei luoghi del bene in luoghi di relazione, radicando in essi i nostri comportamenti.
Mediante la consapevolezza che lo spazio, la sua forma, i suoi materiali, la sua luce, i suoni che contiene e produce condizionano i nostri comportamenti.
Mediante l’uso della forma, del colore, dell’odore e finanche della memoria che questi elementi lasciano dentro di noi. Questi sono gli strumenti fisici dell’architettura, governarli ci dà potere e responsabilità.
Utopie concrete sono anche quelle che Michel Foucault ha chiamato eterotopie.
È “eterotopico” lo specchio in cui ci vediamo, ma dove sappiamo di non esserci, o il cimitero dove andiamo a trovare coloro che abbiamo amato pur nella certezza che non sono lì.
Secondo Foucault esistono spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l'insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano. Lo sono evidentemente i teatri, i cinema, i manicomi, le carceri. Ma con minor evidenza lo sono anche i treni, le camere d’albergo, i collegi e i giardini.
Kant fa della funzione dell’utopia una vera e propria fondazione filosofica. In “Critica della ragion pura” parla delle idee come di prospettive della ragione alle quali dobbiamo al tempo stesso l'unità e il progresso del sapere. Le idee, in quanto ideali della ragione, non hanno un contenuto compiuto, ma costituiscono una sorta di regola, per realizzare l'unità e la progressività del sapere. È utopico andare oltre affidandosi alla ragione, limitata e non mai assoluta.
Così proprio nella sua totale inaffidabilità, nella sua impossibilità di essere esaustiva, nella sua instabilità tanto etimologica che semantica, sta il suo formidabile potenziale evolutivo. Punto di ripartenza di ogni momento di crisi, per ampliarne il significato, le si attribuiscono sempre nuovi affissi. Dominique Gonzalez Foerster propone il termine distopia - che all’origine del suo utilizzo assumeva il significativo proiettivo di futuri bui e incerti - per rappresentare un nuovo punto critico verso migliori soluzioni.
La poetessa canadese Margaret Atwood suggerisce di utilizzare, per opere letterarie e cinematografiche che si collocano tra rivisitazione della tradizione utopica e fantascienza, il neologismo ustopia per segnalare l’inevitabile mescolanza di elementi utopici e distopici da sempre, attraverso i miti, vero e proprio nutrimento di tutte le culture.
Ma come si colloca in questo contesto il culto dell’immagine della nostra società contemporanea?
«Attraverso l’artificio tecnico sempre più sofisticato, le immagini diventano veri e propri luoghi immersivi abitabili, distogliendoci dalla sostanza reale delle cose o peggio proprio dall’elaborazione personale di quei miti nati per raccontare, attraverso i secoli, della verità, del significato e del senso della presenza degli esseri umani su questa terra».
Joseph Campbell ( “Il potere del mito”).
La nostra società produce sempre più immagini, dall’ecografia in avanti siamo prigionieri di immagini che non sono più semplici apparenze. Non più col solo pensiero, e la nostra fantasia interiore, immaginiamo il sogno che ci raccontiamo, ma nelle immagini virtuali, che ci vengono proposte sempre più realistiche, metabolizziamo il nostro essere, abitandole.
Il rischio è quello di interpretare queste metafore come realtà, perdendo proprio il senso della mitologia, nata per stabilire e mantenere un contatto forte con la natura, dalla quale deriviamo. Una nuova forma di religione che sempre Campbell definiva “mitologie di tipo sociologico” da temere, se in grado di legarci a una particolare società allontanandoci dalla natura, che inevitabilmente abitiamo assieme a tutti gli altri.
D’altra parte mi convince, leggendolo, ciò che scrive Grant Morrison, uno dei maggiori autori contemporanei di fumetti, nel suo libro di saggi sul fumetto dei supereroi:
«Viviamo nelle storie che ci raccontiamo. In una cultura secolare razionale e scientifica priva di una convincente guida spirituale, le storie dei supereroi parlano a voce alta e con coraggio alle nostre più grandi paure, ai desideri più profondi e alle più alte aspirazioni.
Non hanno paura di avere speranze, non si imbarazzano a essere ottimiste e sono assolutamente senza paura dell’oscurità. Sono quanto di più lontano ci sia dal realismo sociale, ma le migliori storie di supereroi toccano direttamente gli elementi mitici dell’esperienza umana che ci riguardano da vicino, in modo fantasioso, profondo, divertente e provocatorio».
Per finire basti citare il filosofo marxista tedesco Ernst Bloch che in “Spirito dell'utopia", considerandola una prospettiva attraverso la quale pensare e costruire un nuovo assetto socio-politico-culturale, ne fa il fondamento della critica e della speranza e Herbert Marcuse, della scuola di Francoforte, secondo il quale per fronteggiare la progressiva e preoccupante invasività della tecnica e il controllo delle autorità sulla società bisogna aprire la scienza alle prospettive dell'utopia ("Fine dell'utopia").
Chi è | Edoardo Milesi
Architetto, fonda nel 1979 lo studio Archos orientandosi da subito, attraverso la partecipazione a concorsi di progettazione, verso un costruire fortemente connotato da dettami ecologicamente regolati nell’ambito di una lettura “forte” della realtà.nel 2008 fonda con un gruppo di artisti e architetti la rivista “ArtApp” della quale è Direttore. Dal giugno 2009 è presidente del Comitato culturale della Fondazione Bertarelli. Nel 2012 fonda l’Associazione culturale Scuola Permanente dell’Abitare.
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