Micklo nel Mondo Libero
Franca Pauli intervista a Londra Matthew Wheeler e indaga insieme a lui come la vita sa cambiare e offrire occasioni di rinascita

Photo © Dario Colombo
Matthew Wheeler, 36 anni, nasce a Belfast ma segue il padre, capitano dell’IRA, in fuga negli Stati Uniti quando ha solo nove mesi. Nel 1983, l’amnistia della Thatcher per i membri dell’IRA all’estero riporta l'uomo nel Regno Unito, ma Matthew rimane a South Central Los Angeles col resto della famiglia, in una situazione di gravissimo abbandono e violenza familiare, sullo sfondo dei quartieri governati dalle gang latine.
Franca Pauli: Matthew, partiamo dall’inizio per poi arrivare ai tuoi anni in prigione…
Matthew Wheeler: Sono stato in prigione tutta la vita. Sono un rifiuto della società. La mia famiglia di sangue non era una famiglia e la gang era l’unico sbocco possibile. Il nostro patrigno era alcolizzato e ci picchiava, violentava mia sorella e io l’ho ammazzato col manico di un’ascia, a 12 anni. Avevo saltato scuola, sono entrato dal retro di casa e lui è lì che molesta mia sorella. Avevo paura, lui era uno grosso e cercavo solo di colpirlo, prendere lei e scappare, ma non sono riuscito a fermarmi. Mi tornavano in mente tutte le botte prese e quando mi sono fermato, era morto. Il giudice mi ha detto: “Dovrò darti 18 mesi in carcere psichiatrico perché non mostri rimorso.

Provi rimorso per quello che hai fatto?” e io: “Ma neanche un po’!” Quello era feccia della peggiore, un violentatore di bambini!”.
F.P. Quindi un’infanzia difficilissima finita in carcere psichiatrico…
M.W. Sì, la mia infanzia è stata difficile, ma non mi ha rovinato. Non sono amareggiato, non sono arrabbiato per quello che mi è successo. Non mi ha fatto diventare una cattiva persona, mi ha fatto diventare quello che sono oggi.
F.P. Com’era il carcere psichiatrico?
M.W. Un reparto di sicurezza per minori. Un anno e mezzo in una stanza imbottita sotto barbiturici, a 12 anni.
F.P. E poi la gang…
M.W. anni ’90, a South Central Los Angeles c’erano 32 gang latine. Io ero dell’MS-13, La Mara Salvatrucha, una delle più grandi. Devi pensare che i membri delle gang sono soldati e obbediscono tutti a regole chiare, per esempio non possono mai attaccare i civili, perché la zona è il primo condotto per il traffico di droga negli Stati Uniti e deve rimanere pulita. Se ti arrestano per aver sparato a un civile, non arrivi vivo in cella .
F.P. Però in prigione ti trovi a convivere con membri delle gang rivali...
M.W. Negli anni ‘90, tutte le gang della California del Nord erano rivali di quelle del Sud. In prigione, però, tutti diventano di regola Sureños 13 e tutti i sureños (fratelli del sud) sono convogliati nella Supergang che ora serve la mafia messicana. Sono 200mila soldati solo a Los Angeles.
F.P. Vuoi dire che il carcere ha finito per rafforzare il suo nemico?
M.W. Sì, perché ha creato la Supergang! Prima tra le gang tu eri il mio nemico, io il tuo bersaglio. Ora sono tutti sureños. Il governo non avrebbe mai immaginato che gang come la 18th Street e l’MS-13 sarebbero diventate sorelle, ma è successo. La Supergang controlla tutto il commercio di droga col cartello di Sinaloa, dal Messico attraverso il confine fino a Pelican Bay e tutto viene gestito da dentro la prigione. Hanno squadre di secondini, funzionari di governo e di polizia pagati per garantire che tutto funzioni. Attraverso i loro strumenti punitivi, si sono creati un nemico più forte.

F.P. Prima di San Quintino, eri già stato in prigione?
M.W. Dal carcere psichiatrico, sempre. Una volta sono stato libero per meno di quattro ore. Il governo ti tiene sempre un piede sul collo. Nelle prigioni ci sono fabbriche a manodopera gratuita e quindi fanno tutto il possibile per riportarti dentro. In America, la porta del carcere è una porta girevole, esci e rientri perché le prigioni devono fare profitto. Servono fondi in base ai livelli di produzione e tu fai giubbotti antiproiettile in Kevlar, uniformi, componenti per gli elicotteri Apache... Se trasferissero quelle fabbriche nel privato, il budget salterebbe.
F.P. Sei mai stato felice in prigione?
M.W. Sono cresciuto. Se il giudice mi avesse dato l’ergastolo, non avrei fatto una piega. Il carcere è un posto sicuro, perché fra i detenuti vige una politica di rispetto non scritta ma chiara. Puoi pretendere il rispetto, ma te lo guadagni solo rispettando gli altri tu per primo.

Un selfie a Londra
F.P. E come sei finito a Londra?
M.W. Quando ho scontato l’ultima sentenza di 17 anni e cinque mesi, mi hanno deportato nel mio paese di nascita. Sono arrivato all’aeroporto di Heathrow e pensavo che sarei andato a vivere con mio padre, perché sapevo che abitava qui. Non ci vedevamo dal ’98, da quando era venuto a trovarmi a San Quintino. Avevo un bel ricordo di lui. Lo cercavo, non lo trovavo e, ancora a Heathrow, ho saputo che era morto un anno e mezzo prima.
F.P. Per cui ti sei trovato di colpo in un paese nuovo, senza conoscere nessuno?
M.W. Nessuno. Allo sportello TravelCare mi hanno mandato da Prisoners Abroad e loro mi hanno trovato un ostello. L’hanno pagato e hanno mandato avanti la richiesta di sussidio per me.
Mi hanno organizzato tutto. Sono stato in ostello a Camden per tre mesi e poi nell’appartamento a Kilburn High Road dove abito adesso. È un monolocale grande come questa stanza, ma è più grande della mia cella. Per me è un palazzo, un tempio! Mi piace la mia solitudine.
Ogni mattina seguo la routine della prigione: mi alleno, pulisco, faccio un giro per strada… Però ho un telefono, vado dove voglio, non devo preoccuparmi della gang o che qualcuno mi accoltelli o mi spari nella schiena…
F.P. Com'è abituarsi al mondo libero?
M.W. Appena uscito, spesso avevo attacchi di panico. Non potevo stare in mezzo alla gente perché in carcere, quando sei in mezzo a duemila detenuti in rivolta, ti fai male. Mi sono sempre fatto male, quindi per me la metro all’ora di punta non è facile. Una volta alla stazione di Mornington Crescent ho creduto che mi venisse un infarto. Il cuore mi batteva a mille e sudavo freddo, sono andato dal medico e mi ha detto che soffro di PTSD (sindrome da stress post-traumatico), perché ho vissuto così tanto in prigione.
All’inizio è stata dura, ma adesso, un anno dopo, forse ce la sto facendo. Quest’ultimo anno è il periodo più lungo che ho passato fuori e sono orgoglioso di me.
F.P. Dopo quello che hai passato, io credo che tu sia sopravvissuto anche perché hai una missione di testimone tra due mondi molto diversi.
M.W. Certo, vorrei aiutare! Niente potrà cancellare quello che ho fatto, però io potrei aiutare qualcuno. Se potessi allontanare anche solo una persona dalla violenza, quella notte dormirei tranquillo. Magari un progetto pubblico che aiuta i ragazzi in difficoltà… mi serve un buon contatto con qualcuno che voglia aiutare questi ragazzi attraverso la mia esperienza. Io ho la maglietta. Sai come si dice… io ci sono stato, ho visto, ho fatto, ho imparato, I got the T-shirt, ho la maglietta!
Articolo pubblicato su ArtApp 16 | LA PRIGIONE

Chi è | Franca Pauli
Editor e traduttrice italiana che vive e lavora in Inghilterra. Dai tardi anni 90 cura anche progetti di identità aziendale, comunicazione e arte sociale con il leitmotiv di creare comunicazione e sostenerla nel modo più demograficamente trasversali possibile. A Margate, nel Kent, ha aperto il “101 Social Club”, formula mista di studio personale, bistrot e centro sociale.
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